Al convegno su “La scuola di tutti”, organizzato da GS (Gioventù Studentesca) il 7 aprile 1968 nella sala dell’Arengo, parteciperono circa ottocento persone, fra studenti, docenti e genitori. A settembre, nella consueta tre giorni di ripresa della vita comunitaria di GS, a Gabicce si ritrovarono in una trentina. Di mezzo c’era stato il Sessantotto. La più vivace e partecipata forma di aggregazione giovanile nelle scuole riminesi era stata travolta dal quel movimento studentesco che i suoi stessi quadri e militanti avevano alimentato.
A Rimini il ’68 degli studenti, il libro curato da Fabio Bruschi ed edito da Panozzo, documenta con molte notizie e particolari il coinvolgimento di Gioventù Studentesca nel “movimento” (come tout court lo si chiamava) ma si arresta davanti a un giacimento che lascia incuriosito il lettore. «Sul “lungo addio” di GS, dall’ottobre ’67 all’estate ’68, - scrive Bruschi avviandosi alla conclusione del suo saggio - le carte di don Aldo Amati, allora assistente ecclesiastico del movimento a Rimini, sono di eccezionale importanza, riportando dall’interno, con cura minuziosa, testimonianze, discussioni, punti di vista: meritano una pubblicazione a parte e qui se ne è fatto un uso volutamente limitato». L’archivio di don Amati è custodito nell’Archivio Storico Diocesano di Rimini e aspetta pertanto che qualche studioso lo prenda in esame.
È abbastanza noto come il Sessantotto determinò una crisi all’interno del movimento fondato da don Luigi Giussani, soprattutto a Rimini e a Milano, ma di ciò che accadde in quei convulsi mesi si conoscono soprattutto i racconti dei pochi sopravvissuti giessini che poi continuarono la stessa esperienza in Comunione e Liberazione. Una documentazione “in presa diretta” potrebbe indubbiamente fornire ulteriori e forse inediti elementi di comprensione. All’inizio dell’anno scolastico 1967/68 don Giancarlo Ugolini, il sacerdote che fu dall’inizio sempre accanto a quei ragazzi di Rimini Studenti che a San Leo incontrarono i giessini milanesi in vacanza e diedero vita a GS nella nostra città, fu sostituito dall’autorità ecclesiastica nel ruolo di assistente, e l’incarico fu affidato appunto a don Amati. La GS che si trovò ad affrontare il movimento passato alla storia come Sessantotto era quindi priva della sua storica guida, e probabilmente anche questo è un particolare che può avere avuto una qualche incidenza sull’evoluzione dei fatti.
Fabio Bruschi, probabilmente anche per ragioni autobiografiche (di GS fece parte, sua fu una relazione al citato convegno del 7 aprile), concentra molte delle sue attenzioni sul contributo alla protesta studentesca dato dai giovani cattolici. È una lettura “da sinistra” (il campo politico in cui poi Bruschi si è ritrovato) che contiene molti elementi di novità rispetto ad una pigra e diffusa vulgata. Sostiene infatti che Gioventù Studentesca non può essere assimilata ai vari tentativi di riconquista cattolica della cultura e della società, nel senso di restaurazione di un passato superato. Piuttosto va vista come un tentativo di «ri-costruzione»: «un movimento d’ambiente che partiva dal vissuto dei singoli e dal loro habitat, la scuola». Bruschi vede quindi in GS un fenomeno che unisce al «forte radicamento nella tradizione cattolica, un sapore di novità, di modernità (siamo negli anni della nuova frontiera di J. F.Kennedy) e, non da ultimo, di efficienza». Bruschi azzarda poi un’ipotesi tutta da verificare: a suo giudizio GS sarebbe una versione di “americanismo” nel senso di comunitarismo esistenziale. Il comunitarismo americano (Sandel, MacIntyre, Taylor, ecc.) è in realtà un fenomeno degli ultimi decenni del secolo scorso; al massimo forse si può dire che GS sia stata un’anticipazione, a conferma del suo carattere moderno.
Non stiamo qui a ripercorrere tutte le notizie e i dati che Bruschi fornisce. Sul legame fra GS e il nascente movimento degli studenti è però rivelatore un passaggio di un documento pubblicato nel libro, la relazione dei Gruppi di studio all’assemblea del Liceo Classico Giulio Cesare. Come esempio di autoritarismo praticato dai docenti (uno dei bersagli della contestazione) viene riportato il seguente comportamento: «Il professore insegna secondo una sua interpretazione che non viene messa in discussione e confrontata, quasi mai viene annunciata chiaramente quella che è l’ipotesi culturale. (…) Il metodo adottato dal professore viene presentato come “il” metodo, cioè come l’unico vero e realmente scientifico». C’è in queste righe una chiara eco della critica alla presunta neutralità della scuola di Stato che apparteneva al Dna culturale di Gioventù Studentesca.
Il libro, uscito con eccezionale tempismo, a cinquant’anni esatti, 28 ottobre 1967, dallo sciopero degli studenti dell’ITI che diede vita alla epopea sessantottina, non contiene solo il poderoso saggio di Bruschi. Lo precede uno scritto di Giuseppe Chicchi sulla vita studentesca e associativa alla vigilia del ’68; e lo completano altri saggi di Leonardo Montecchi (girovagando per le strade del movimento), Elisa Gardini (un ritratto dei due presidi affrontati dai contestatori Remigio Pian (Valturio) e Carlo Alberto Balducci, del Giulio Cesare), di Piero Meldini (sull’impatto a Rimini di Lettera a una professoressa di don Milani), Gianfranco Miro Gori (sul cinema dell’epoca), di Jader Viroli (sui miti musicali di quella generazione), di Fabio Tomasetti (su scuole e luoghi della città); un dialogo fra Antonio Mazzoni e Carlo di Gregorio fa il punto sulla scena socio-economica.
Un lavoro pregevole, sicuramente un contributo importante, quasi definitivo. Ci siano permesse due osservazioni, suscitate da una prima lettura. Il tentativo di Bruschi è quello di fotografare la “storia di un inizio”, come recita il sottotitolo di copertina. Tutti i fatti e le notizie che potevano essere trovati, probabilmente le ha scovate. Manca forse il tentativo di spiegare perché da uno sciopero che poteva semplicemente essere una normale rivendicazione sindacale (gli studenti dell’ITI chiedevano che fossero aboliti i rientri pomeridiani per favorire i pendolari) sia poi emerso il Sessantotto. Evidentemente c’era un disagio che covava, un desiderio di novità e di protagonismo che forse andava meglio analizzato.
Un altro interrogativo che rimane inevaso è questo: cosa era accaduto perché dagli scioperi su rivendicazioni di tipo sindacale si passasse (vedi assemblea delle Magistrali del 18 marzo nella palestra dell’ex teatro Galli) a striscioni che recitavano “Qui non si protesta per cambiare la scuola, ma per capovolgere il sistema”?
Valerio Lessi