C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe, racconta la Bibbia. Ci sono nella terra che viviamo tanti nuovi Giobbe, documentati, nella mostra che vi ha dedicato il Meeting, da molte immagini che raccontano la sofferenza innocente dei nostri giorni. E chi nella sua vita non è stato per qualche momento un Giobbe? E chi non si è trovato a respingere le risposte giustificative, consolatorie, di quegli amici che presumono di poter spiegare il comportamento di Dio? Chi non ha chiamato qualche volta Dio a giudizio, chiedendogli ragione della presenza del male? Gli uomini moderni – come ha ricordato Juliàn Carròn nell’incontro su Giobbe e come documenta anche la mostra - hanno anche inventato una nuova disciplina filosofica e teologica, la teodicea, per spiegare il mistero del male e la giustizia di Dio. In realtà, e questo è il paradosso secondo Clive Stape Lewis, il cristianesimo suscita, piuttosto che risolvere, il problema della sofferenza.
Se c’è un aspetto interessante della mostra del Meeting è che non termina con una ricetta (d’altra parte come sarebbe possibile?) ma con alcune esperienze di uomini che si sono misurati con il problema del male e con la presenza (o assenza) di Dio: don Carlo Gnocchi e i bambini feriti in guerra; Etty Hillesum, che ad Auschwitz riesce a scrivere nel diario che la sua vita è diventata un colloquio ininterrotto con Dio; padre Massimiliano Kolbe che sempre in quel luogo offre in sacrificio la sua vita per la salvezza di un altro; Madre Teresa di Calcutta che si è chinata sul dolore dei più miserabili, don Paolo Bargiggia, malato di Sla che arriva a dire che per lui quella malattia è una grazia proprio perché molto cattiva; ed infine Mario Melazzini anche lui malato di Sla, noto perché ha ricoperto incarichi pubblici e politici, che è tornato la fede leggendo il libro di Giobbe e rivivendo il suo percorso. Al Meeting si è potuto ascoltare a viva voce la sua testimonianza. Dopo aver saputo della malattia, ha vissuto un anno lontano da tutti. Un amico gesuita gli regalò una Bibbia con il segnalibro su Giobbe. Ma per molto tempo non lo apre, perché per lui era una favola. Poi cominciò a leggerlo, ma senza risultato. “Prendere il libro di Giobbe è come tenere in mano un’anguilla, provi a stringerla forte ma ti scivola via”. Tutto è cambiato quando ha cominciato a paragonare il proprio percorso con quello di Giobbe. La ripugnanza per la malattia, la difficoltà con gli amici saccenti, il grido a Dio per chiedere perché. L’identificazione con Giobbe lo ha portato a riscoprire la presenza del Mistero. “La sofferenza – ha ripetuto più di una volta – non è desiderabile né augurabile. Però nel mio percorso, affrontando le sfide e le prove, sono arrivato a percepirla come un valore aggiunto”. Nella mostra un punto centrale di svolta, è la frase finale di Giobbe: “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora ti ho incontrato e ti ho visto”. Una verità che per Melazzini è diventata esperienza.
Nella mostra tutto questo è documentato da una rappresentazione fisica in tre momenti. All’inizio un masso che incombe, il male che sovrasta l’esperienza umana e sembra non offrire via di scampo. Quel masso, lungo il percorso diventa un altare. Come disse Paul Caudel, non è una spiegazione che può salvare, ma una Presenza. In Cristo, il giusto sofferente, morto e risorto, si chiarisce il mistero dell’uomo e il problema del male. Al termine, quando il visitatore è invitato a guardare le esperienze umane in cui ciò è accaduto, c’è sempre il masso che incombe, ma è più in alto, è sorretto da una croce.
Nell’incontro dedicato a Giobbe, don Juliàn Carròn ha raccontato un’esperienza vissuta da insegnante. Uno studente era molto arrabbiato perché un compagno aveva avuto un incidente stradale. Gli chiede il sacerdote: “Se uno sconosciuto per strada ti dà una sberla, tu come reagisci?”. “Gliene restituisco due”. “E se invece, tornando a casa, la sberla la ricevi da tua madre?”. “Le chiederei perché”, fu la risposta. “E’ l’esperienza della convivenza con la madre, l’esperienza vissuta del suo bene, che ti consente di reagire chiedendo il perché. Solo avendo alla spalle una storia di rapporto con Dio, possiamo guardare tutto, anche il male, con la presenza di Dio negli occhi, senza fuggire o senza soccombere alla recriminazione”.
C’è uno spartiacque nella storia. La peste nel Medioevo aveva mietuto più vittime del terremoto di Lisbona, sessantamila morti. Ma nessuno aveva mai messo in discussione la giustizia di Dio. Solo in epoca moderna, il pensiero ha ceduto al sospetto su Dio, non lo ha più considerato un compagno ma un colpevole. E se a volte rimane il grido, con Kafka nel Processo, arriva a cancellare perfino la domanda.
Il filosofo Salvatore Natoli ha aggiunto un altro elemento alla riflessione. Perché Dio non è intervenuto ad Auschwitz per impedire il male? Perché si era di fronte ad un dolore non inflitto dalla natura (malattie, catastrofi) ma dall’uomo. Dio non può intervenire a impedire il male inflitto dagli uomini. “Lo scandalo del male – chiosa infine Carròn – è lo scandalo della libertà. Dio rispetta la libertà dell’uomo”.
Aveva ragione Josè Luis Borges: “Se esiste al mondo un libro che merita la parola sublime, credo che sia il libro di Giobbe”.
Valerio Lessi