Vaciago. Riposizionare l'Italia e Rimini secondo il modello del buon gusto
In vista della diffusione del rapporto economico sulla provincia di Rimini curato dalla Camera di Commercio, abbiamo rivolto a Giacomo Vaciago, professore alla Cattolica, consulente del governo, giornalista del Sole 24 Ore – che quel rapporto lo presenterà la prossima settimana – alcune domande sul tessuto economico e sulle prospettive del nostro territorio.
La prima questione riguarda la scelta del distretto turistico riminese di continuare a posizionarsi nel segmento "basso" dell'offerta e continuando a privilegiare il fattore prezzo a scapito della qualità. Cosa pensa in prospettiva di questa impostazione? E' necessario, ma non sufficiente. La crescita economica del mondo è tale che anche Rimini non puo' accontentarsi del suo passato: vedi i problemi di Fiat nel continuare a fare in Italia utilitarie da vendere altrove; quando il mondo associa oggi all'Italia un'immagine di lusso che favorisce la Ferrari e tutto ciò che gli assomiglia. Senza esagerare, ma gradualmente nei prossimi anni bisogna riposizionare tutto il Paese - e quindi anche a Rimini - all'insegna di un modello (l'unico coerente con il nostro grande passato) che è quello del buon gusto. E farlo pagare in modo appropriato.
L'industria riminese, legata a settori tradizionali, sta attraversando un periodo denso di problemi. Pensa che sia possibile per un territorio come il nostro continuare a crescere e prosperare con un modello di sviluppo che rischia di assomigliare sempre più a quello greco? Attenzione ai confronti : un modello di sviluppo greco non c'è mai stato, e addirittura ci sono stati Governi in Grecia che falsificavano i bilanci... Il nostro problema è un altro: per crescere e prosperare devi realizzare guadagni di efficienza e di produttività, incominciando da ciò che è comune: e quindi dalla pubblica amministrazione. Quando incominciamo? Negli ultimi quindici anni, abbiamo fatto il contrario: l'innovazione tecnologica (penso all'ICT) non l'abbiamo incorporata nel nostro quotidiano modello organizzativo e quindi ha paradossalmente aggravato i nostri problemi. Faccio un esempio: le imprese più innovative, in tutto il mondo, misurano il lavoro svolto dai loro dipendenti e li remunerano per il lavoro svolto, ovunque ciò sia avvenuto. Si chiama telelavoro: i dipendenti non devono più recarsi in ufficio e passare 8 ore davanti un pc, ma posso farlo a casa loro. E l'azienda può vendere gli immobili che non le servono più. Noi stiamo ancora cercando (vedi i provvedimenti del precedente Governo) di contrastare l'assenteismo (sic !) dei lavoratori: e quando pensiamo a pagarli per il lavoro svolto?
Stante il commissariamento, tuttora in corso, della principale banca del territorio, è pensabile che i compiti che essa svolgeva siano fatti propri da realtà nazionali? O ci si deve aspettare un ulteriore effetto di razionamento? Di solito, una banca locale è un fattore importante di sviluppo, se fa bene il suo mestiere cioè conosce meglio di una grande banca lontana la qualità dei clienti da affidare. Ma la clausola è decisiva: "se fa bene il suo mestiere", perché solo nel rispetto di questa condizione la banca locale è un vero e proprio "bene comune" che conviene cercare di conservare. Adesso i "beni comuni" sono tornati di moda, e tanti ne parlano senza aver capito cosa ciò significhi. E' per questo che nella mia definizione - un bene e' comune quando nei suoi confronti i nostri doveri vengono prima dei nostri diritti - il fallimento di un bene comune equivale a condividere la povertà.
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