“Ho conosciuto Federico Fellini lunedì 21 agosto 1989”. Inizia così il ritratto che Rosita Copioli, poetessa e storica riminese, tratteggia per noi del grande regista riminese. E subito aggiunge, “era un uomo curioso, e non si accontentava mai”.
A questo incontro, tanto decisivo da ricordarne il giorno e l’occasione precisa, Rosita Copioli dedica il suo ultimo libro ‘Gli occhi di Fellini’ (2020, Vallecchi), quasi quattrocento pagine minuziose dedicate al genio del cinema, con cui la poetessa ha intrattenuto per anni un rapporto di amicizia.
“Se tu ti senti degli occhi puntati, ciò ti imbarazza. Se una persona è molto curiosa e insiste nel voler sapere delle cose, ti intimidisce. E’ stato anche un po’ così all’inizio la mia amicizia con Fellini. Poi, a un certo punto, il suo voler sempre andare a fondo, quel suo esigere risposte precise e vere, ha smesso di imbarazzarmi. Voleva sapere tutto della tua vita. Sapeva ascoltare, era attento e tanto generoso”.
Chi era Fellini? “Rosita Copioli è troppo piccola per dire chi fosse Fellini”, mette le mani avanti l’autrice. “Era talmente grandiosa e inafferrabile la sua personalità, dai tantissimi volti e anime. Ciò che aveva di straordinario è che credeva moltissimo nella forza della poesia e dell’arte. Avrebbe preferito morire, se non avesse potuto seguire la necessità che gli dettava l’arte”. Fellini “ha dato molto all’Italia e non solo, raccontava il mondo, intuendo quello che sarebbe successo dopo. Non c’è un film uguale all’altro, Fellini si rinnova continuamente con una forza di espressione talmente profonda. Chi è il genio oggi? Dopo Picasso, c’è solo solo lui, Federico Fellini, il più fedele a se stesso di tutti”.
Cosa significa che nei suoi film lui “prevedeva”? “Gli archetipi ci sono tutti, ‘La strada’ è il mondo del passato, questo andare girovaghi. ‘La dolce vita’ rappresenta la disgregazione e la ricerca.‘Otto e mezzo’ è un viaggio fantasmagorico alla ricerca di sé. Seguendo la nonna torna a vedere la vita della civiltà contadina che la seconda guerra mondiale aveva spazzato via”. Anche in ‘Prova d’orchestra’ c’è un senso profetico, reso evidente proprio da questa dialettica di ordine e disordine, disgregazione e ricomposizione, un po’ aristotelica, tipica di quelle fasi in cui si alternavano i regimi. In Amarcord c’è tutta la critica del fascismo. Il suo occhio vedeva molto lontano. Amarcord viene capito dai giapponesi e non per una lettura grottesca dei personaggi che potevano ricordare quelli dei fumetti, ma perché Fellini va nel profondo universalmente riconosciuto”. ‘Città delle donne’ del 1980, “è un film molto particolare. Il protagonista, Guido, in cerca di una donna, viene ingabbiato dalle femministe e processato. Racconta il momento in cui le donne si ribellano ai ruoli che sono stati loro attribuiti da sempre dagli uomini. Ruoli di cui le donne fanno piazza pulita, mentre l’uomo assiste spaesato”. ‘Ginger e Fred’, “è una satira del mondo contemporaneo, una critica della pubblicità, delle nuove tv private nei set delle quali Ginger e Fred danzano come dei sopravvissuti”. Una critica alla “civiltà che si sfalda” che nel film “diventa ferocissima”. Fellini aveva “un occhio satirico tremendo”. I due ex ballerini di tip tap “si ritrovano spaesati fuori del mondo e della realtà conosciuta, all’interno di un sistema grottesco, dentro uno studio televisivo dove ne vedono di tutti i colori e dove impera la pubblicità, il dover vendere a tutti i costi. Il film comincia con delle visioni di spot che lui stesso girò per suo gusto, ma è un piangere contemporaneamente sulla miseria contemporanea, su quello che immaginava sarebbe successo”. ‘La voce della luna’ propone “le grandi domande che non avranno mai risposta. L’esigenza delle domande innate si acuisce mentre i tessuti sociali si sfaldano”. L’aspetto profetico “avanza nella Voce della luna, nel finale quando dalla luna viene fuori il viso di Albina e grida pubblicità. E’ il mondo in cui tutti vogliono essere giovani, dove non c’è il senso dello scorrere del tempo, del rispetto della natura. E’ il mondo dell’equiparazione, in cui qualunque artista viene messo alla pari di chiunque si faccia avanti nel mondo dello spettacolo. E’ il mondo dove tutto è relativo, dove tutto è racconto di sé piuttosto che essenza di sé. E’ un mondo pericoloso che stiamo vivendo anche adesso. Pensiamo all’effetto del covid sulle relazioni. Il rischio è che l’uomo senza relazioni perda se stesso. Come nella Strada, dove lei, una creatura non perfettamente brillante, alla fine conquista il bruto e gli fa capire il valore dell’amore”.
Cos’è che fa diverso Michelangelo da un illustratore? Si domanda la poetessa. “Cos’è che fa diverso Dostoevskij da un giornalista qualsiasi? E’ l’arte. Fellini ha sempre puntato a dare il massimo e ha sempre difeso la forza della poesia, intendendo la poesia come quel che è indecifrabile, il mistero. Per renderlo evidente usava mezzi molto semplici. Si è sempre rifiutato di adoperare questi grandi inganni fatti dal cinema, gli effetti speciali. Lui ha continuato a giocare con inganni molto poveri, aveva bisogno di una finzione artigianale di modo che tutto rimanesse dentro una dimensione umana. Era ammirato anche per questo”.
Perché per Fellini avevano grande importanza i sogni? “I sogni per Fellini sono strumento di consapevolezza, segno della sua grande attenzione all’interiorità che si rivela attraverso le immagini. Quella dei sogni non solo è una forza oltre di te e che ti viene donata, è anche una ricchezza assolutamente fondamentale. La capacità di ascolto e attenzione all’invisibile, da non confondere cn l’attenzione al paranormale (che comunque lo ha sempre affascinato) o con la magia, è paragonabile a quella che si ritrova in Dante o nella Bibbia. Io mi occupo di storia e nel farlo cerco sempre di dare voce a ciò che è scomparso. L’attenzione a quello che non c’è più, alla dimensione di chi ci ha preceduti, è il modo di far rivivere quel bene che è ancora presente, ma che rischia di essere distrutto se non facciamo attenzione. Questa per me è la sostanza dell’arte e della poesia. I poeti vivi sono in dialogo con i poeti morti. Anche Fellini ha vissuto questo dialogo”. Per questo Fellini “non era un iconoclasta, ma in realtà molto conservatore verso gli archetipi e aveva enorme rispetto delle grandi figure della letteratura. Lui non ammirava uno scrittore bravo in quanto supremamente bravo (per carità, c’era anche questo). Sentiva ammirazione per la forza che questi avevano avuto nel dare il testimone alle generazioni successive. Frequentandolo ho avuto proprio questa sensazione: che lui fosse molto legato in particolare agli scrittori estremamente innovativi che però portavano il testimone del profondo, del mistero, dell’invisibile”.