Ora che si è fermato il clamore delle prime reazioni, spesso esagerate e scomposte, è possibile una riflessione pacata sulle questioni sollevate dal docu-film SanPa, mandato in onda dalla piattaforma Netflix.
Le reazioni fin qui emerse sono state sostanzialmente di due tipi. Da una parte i sostenitori storici della comunità fondata da Vincenzo Muccioli, che hanno visto nel documentario un attacco vergognoso a SanPa. I fatti ricordati (catene, omicidio Maranzano, suicidi sospetti) sono veri o falsi? Questa domanda è elusa, di San Patrignano si può e si deve solo parlare bene perché ha salvato tante vite umane in tempi in cui in lo Stato non faceva nulla contro la tossicodipendenza. L’altro tipo di reazioni è rinvenibile fra persone aderenti all’area vasta della sinistra. Ai tempi dei fatti ricordati dal docu-film gli esponenti della sinistra, politici e intellettuali, erano più che diffidenti, quando non ideologicamente ostili a San Patrignano. Dopo che intorno alla comunità si è creato un clima di consenso generalizzato, anche costoro si sono adeguati. Di fronte al documentario non si sono scandalizzati (in fondo è quella l’immagine che essi hanno introiettato nel profondo), hanno colto l’occasione per fare sapere che adesso sostengono il cammino della comunità e la sua attività di recupero dei tossicodipendenti.
In tutto questo appare evidente come intorno a SanPa non si sia ancora consolidata una memoria condivisa. Basta evocare certi fatti e subito gli animi tendono a dividersi, a scontrarsi, come se il tempo non fosse passato e le ferite fossero ancora aperte, brucianti. Un po’ come accade ogni 25 aprile, quando la sinistra celebra la festa della Liberazione, e la destra ripete che si trattò solo di un mito funzionale alla conquista comunista del potere.
Quasi allo stesso modo, quando si torna sui fatti drammatici e violenti che hanno segnato la storia di San Patrignano, scoppia la contrapposizione con gli ultras della comunità che non tollerano si possano evidenziare ombre. A questo atteggiamento contribuiscono due fattori. Il primo è una narrazione che vuole Vincenzo Muccioli un eroe isolato in una guerra alla droga che vede la latitanza dello Stato e delle altre agenzie educative. È una narrazione sbagliata. Il Ceis di don Mario Picchi era stato fondato nel 1971, la Comunità Incontro nasce nel 1979 a Molino Silla, la prima comunità terapeutica di don Oreste Benzi apre nel 1980. Quando si celebrò il processo delle catene (1985), le comunità terapeutiche erano un arcipelago che raggiungeva centinaia di giovani. Eppure si diceva che Muccioli era l’unico ad intervenire e come tale doveva essere assolto da ogni colpa. L’altro fattore è la campagna mediatica che la comunità, con le risorse e le relazioni dei finanziatori (coniugi Moratti), ha condotto a suo tempo per mettere a tacere ogni voce critica e dare spazio solo a illustri testimonial che celebravano i successi di Sanpa.
Una strategia di difesa e di sopravvivenza che però ha impedito che l’opinione pubblica potesse essere coinvolta nei processi di cambiamento che dalla morte di Muccioli in poi si sono innescati nella comunità. Finché era vivo Muccioli, nel bene e nel male San Patrignano coincideva con il suo magnetico carisma, morto il fondatore a reggere poteva essere solo un metodo, un percorso, chiamiamolo come si vuole. I fatti delle catene e dei reparti punitivi denunciavano un grosso limite in SanPa: in che modo la libertà e la responsabilità dei giovani erano sollecitate nel percorso di uscita dalla dipendenza. È un tema che né gli ultras né i neo-sostenitori di oggi si pongono, ed è invece oggettivamente centrale.
Da questo punto di vista il limite vero del docu-film è che non ha riservato nemmeno una puntata a ciò che è diventato San Patrignano dalla morte di Muccioli (1995) ad oggi. Cercando probabilmente solo l’effetto scandalo, hanno compromesso la completezza della loro narrazione, senza provare minimamente a documentare come siano stati affrontati e risolti i temi della libertà e della responsabilità.
Dove la libertà non può essere ridotta alla libertà di scelta in base al proprio sentire. Che è invece il concetto che sta dietro ai detrattori storici di San Patrignano e delle comunità terapeutiche in genere. Non accettano che la libertà di un giovane possa essere sollecitata (certo, non con l’imposizione, tanto meno con le catene) ad aderire a ciò che è bene per la sua vita. Vengono in mente a proposito la campagna “Educare senza punire” che alla fine degli anni Ottanta condussero radicali e sinistra e in genere le tante campagne di “riduzione del danno”, nelle quali si voleva esplicitamente evitare un approccio valoriale alle dipendenze e ai comportamenti ‘trasgressivi’. Campagne che trovarono il consenso anche di numerose associazioni cattoliche. Non di don Oreste Benzi, il quale sosteneva che educare è anche punire. Non in un carcere che induce alla recidiva, ma in comunità che sollecitino la libertà e la responsabilità dei giovani. In base alla propria esperienza, lui ricordava che due fatti inducevano i giovani ad avviare un percorso di recupero: il trauma del carcere e la cacciata da casa da parte dei genitori. Una posizione che documenta quanto libertà e responsabilità siano centrali quando si parla di uscita dal tunnel della droga.
Tornando a SanPa, i fans “a prescindere” dovrebbero seriamente riflettere su due risposte fornite da Andrea Muccioli in una recente intervista al Corriere della Sera. Alla domanda se i metodi coercitivi usati in quegli anni siano stati incidenti di percorso ha risposto: «Non lo penso. Credo anzi che siano stati errori gravissimi». La seconda, su quello che sarebbe stato l’errore del padre. «Voler salvare tutti. – ha risposto Andrea - L’accoglienza incondizionata ha un prezzo alto da pagare. Lui questo non lo accettava e così facendo a volte ha dato ai ragazzi una responsabilità più grande di quella che erano in grado di gestire. Ha aperto troppo rispetto alle nostre capacità organizzative. Il risultato è che ha delegato anche persone impreparate a gestire ragazzi in difficoltà».
Quelli posti da Andrea Muccioli potrebbero essere i primi mattoni di una storia condivisa.
Valerio Lessi