Ce ne ho messo per capire, ma forse sarebbe meglio usare il plurale, perché tutte le volte che ripenso a San Patrignano, sono costretto a fare i conti con un lungo itinerario personale che mi ha portato a cambiare il mio giudizio e prima ancora il mio sentire nei confronti della comunità. Tuttavia, vedo quel mio percorso e quello di tanti altri come me che certo non potevano dirsi sostenitori di Sanpa, accompagnato da un viaggio parallelo che ha visto la comunità crescere, svilupparsi, ma anche, così mi pare, cambiare progressivamente e profondamente rispetto ai tratti fondativi delle sue origini.
Nel mio rifiuto c’erano molte cose e, a ben guardare, tutte abbastanza confuse e contraddittorie .
C’era il retaggio della cultura antiautoritaria e libertaria del ’68, ma anche lo statalismo che avversava l’iniziativa privata nella sanità. C’era il disprezzo per qualsiasi culto della personalità che caratterizzava chi era sfuggito ai miti rivoluzionari di quegli anni, ma anche, sulla scia delle ricerche della sinistra americana (Monthly Rewiew), le letture complottiste che vedevano dietro alla tragica diffusione della droga un piano mondiale per distruggere i movimenti rivoluzionari giovanili. C’era la compassione per i conoscenti e gli amici che si erano persi in quel mondo maledetto, nutrita dalla speranza che saremmo riusciti a salvarli con gli ideali di una società nuova, ma anche l’illusione di una scorciatoia farmacologica per spezzare quella catena o quella di cancellare il mercato della morte colpendo chirurgicamente soltanto i grandi trafficanti della malavita organizzata.
Le notizie che giungevano dalla collina di San Patrignano facevano il resto. Le reclusioni forzate, le testimonianze delle violenze, i racconti sulla setta della vigna cristica, le leggende sui ricconi che la finanziavano per liberarsi da figli cui non volevano più dedicarsi.
Quanti anni ci sono voluti per capire? Credo che la svolta vera sia avvenuta con la scomparsa di Vincenzo Muccioli. È difficile, quasi cinico, dirlo così, tuttavia penso sia la verità. Non c’entra l’idea che con la sua scomparsa venissero a perdersi anche il ricordo e le ragioni delle contrapposizioni più aspre.
Il piano della riflessione fu un altro. La sua morte costrinse molti di quelli che come me avevano piano piano imparato a non considerare più Sanpa come un avversario, ma non riuscivano ancora a riconoscerla come un proprio patrimonio, a fare pienamente i conti con la realtà di quella straordinaria esperienza umana di solidarietà, di ricerca e di terapia.
Ricordo quei giorni come giorni di angoscia, di ammirazione per il dolore autentico che attraversava tante persone, ma anche di grandissima preoccupazione, tra chi aveva le leve del governo locale, per cosa sarebbe potuto succedere con la scomparsa del fondatore. C’era in quel sentire pieno di ansia una evidente sottovalutazione della costruzione che Vincenzo Muccioli aveva compiuto nel corso degli anni e della solidità del gruppo di dirigenti che aveva formato nel fuoco di quella esaltante e travagliata esperienza. Cosa sarebbe stato di quelle duemila persone che avevano trovato una nuova ragione per vivere tra le braccia della comunità? Come avrebbero potuto salvarsi senza San Patrignano? Le strutture pubbliche, che tanto amavamo, avrebbero saputo supplire e dare una qualche risposta di fronte ad un eventuale esodo dalla collina?
La necessità impellente di porsi quelle domande che avevano già in sé risposte univoche e perentorie, rappresentò un evento, almeno per me, che possedeva la forza dello “scandalo”. Mi costrinse e credo insieme a me costrinse tanti altri ad uscire da quella terra di nessuno nella quale, dopo gli anni della contrapposizione, ci eravamo rifugiati per troppo tempo. Certo l’assunzione di quel nuovo punto di vista non cancellò le differenze e la lontananza di ispirazione su tante questioni, né spense la polemica politica, ma da allora sono uscito dalla terra del “si, ma..” e ho cominciato a pensare che Sanpa era anche una cosa mia, una cosa alla quale il nostro paese non avrebbe mai potuto e dovuto rinunciare.
Nella mia attività politica ho avuto tre occasioni di rapporto con San Patrignano. La prima vota fu alla fine del 1986, quando ero segretario della federazione riminese del Pci: Vincenzo Muccioli chiese di incontrarmi per una questione che riguardava l’allora sindaco di Coriano, Sergio Pierini. Tornai poi nel 1996, quando Muccioli era ormai morto, per un dibattito in vista delle elezioni politiche. Ci sarebbe molto da dire su questi incontri, ma ragioni di spazio me lo impediscono.
Ho incrociato di nuovo San Patrignano negli ultimi mesi del 2000. Anche in quell’occasione fu il sindaco di Coriano, allora Ivonne Crescentini, a chiamarmi e a sottopormi una questione che la metteva in grandissima difficoltà e che sarebbe potuta diventare una vera e propria bomba mediatica e politica di dimensione nazionale.
La tentazione, almeno in una parte del vertice della comunità, di giocare una partita politica, anche al di là dei temi della lotta alla tossicodipendenza, non si era mai completamente spenta. Le interrogazioni parlamentari contro il tribunale di Rimini e le insistenti presenze di esponenti di Alleanza Nazionale ne erano una testimonianza. La normalizzazione dei rapporti con i poteri pubblici locali e regionali che pure aveva fatto straordinari passi in avanti risultava, comunque non compiutamente affermata. Per chi guardava dal di fuori, come me, c’era una obiettiva difficoltà a capire. Si percepiva l’esistenza di una sorta di doppio binario, quasi che, dopo la scomparsa del fondatore, a fianco del percorso di collaborazione intrapreso con la mano pubblica, ci fosse qualcuno che volesse colmare il vuoto di carisma lasciato da quella perdita, marcando comunque una propria alterità e calcando la ribalta della politica nazionale.
Confesso che quando Ivonne mi presentò il problema questa fu la prima cosa che pensai perché la questione conteneva molti tratti di un braccio di ferro politico.
Una parte molto estesa di San Patrignano era stata edificata abusivamente, senza i necessari permessi. Soltanto attraverso i diversi provvedimenti di condono edilizio che si erano susseguiti gli edifici abusivi potevano sperare di essere sanati. A questo scopo le richieste erano state regolarmente presentate. L’accoglimento dei condoni era però subordinato al versamento della sanzione che, vista la grande entità degli abusi, era davvero molto onerosa, si avvicinava infatti ai cinque miliardi di lire.
Il termine temporale per perfezionare il condono attraverso il versamento si avvicinava, ma al sindaco era stato comunicato che la comunità non era nelle condizioni, ne aveva intenzione di effettuare quel versamento.
Il comune di Coriano era in trappola. La presentazione della richiesta di condono edilizio funzionava come un’autodenuncia che non poteva essere ignorata. Nel caso del mancato perfezionamento il comune era obbligato ad abbattere o a incamerare nel proprio patrimonio gli edifici abusivi. L’alternativa era quella di finire in Procura per omissione di atti d’ufficio e alla Corte dei Conti per il danno arrecato alle casse comunali. D’altra parte, la legge, per quanto criticata e criticabile, era chiara nei suoi principi e nelle sue finalità. Le sanzioni dovevano servire a realizzare le infrastrutture ed i servizi che un nuovo insediamento abusivo, una volta sanato, comportava. Insomma una sostituzione degli oneri di urbanizzazione, perché il consumo del territorio non è mai gratis.
Che cosa sarebbe successo era facilmente prevedibile, lo scontro su San Patrignano sarebbe diventato nuovamente un grande dramma italiano. Si sarebbero scatenate le tifoserie contrapposte e lo scontro ideologico l’avrebbe fatta da padrone: il pubblico contro il privato, il liberismo contro le regole, la speculazione contro la difesa del territorio. Il tutto sulla testa di centinaia di ragazzi che, nella comunità, speravano di ritrovare la propria vita.
Dal mio punto di vista bisognava assolutamente trovare una via d’uscita. D’altra parte, gli abusi edilizi commessi non avevano certamente una finalità speculativa ed erano esclusivamente funzionali alla crescita della comunità. L’unica soluzione possibile, tuttavia, era creare una nuova normativa nazionale che riconoscesse la peculiarità di determinati abusi edilizi legati alle comunità terapeutiche.
In Senato eravamo alla vigilia della legge finanziaria 2001e trovai modo di discutere con il relatore della legge la questione che si era aperta, immaginando che San Patrignano non fosse l’unica realtà con un problema simile. Trovammo una soluzione attraverso due commi che vennero inseriti nel maxiemendamento conclusivo presentato dalla commissione bilancio. Con uno si esentavano le comunità dal versamento delle sanzioni, con l’altro si assegnavano ai comuni risorse finanziarie con un tetto di cinque miliardi per compensare i mancati introiti. La dizione era “comunità terapeutiche per tossicodipendenti e per disabili”, insomma non si trattava di un provvedimento ad hoc, anche se la sua nascita aveva un’impronta precisa.
La Finanziaria era ed è ancora una brutta bestia, pur avendo cambiato nome. Nelle interminabili sedute notturne della commissione può accadere di tutto. Per l’esame delle centinaia di commi in discussione a volte conta più la resistenza al sonno e l’attenzione certosina alle virgole, che la solidità delle argomentazioni.
Avevo lasciato la sera il relatore con l’accordo sul testo degli emendamenti, il cui accoglimento mi era stato confermato nella notte telefonicamente, ma la mattina, prima della votazione, riguardando il testo mi sono accorto che i due commi non c’erano.
Più stupito di me era il relatore che fortunatamente pretese con decisione che venisse immediatamente ripristinato il testo concordato, con un’errata corrige ai testi già stampati. Scoprimmo poi l’origine dell’inghippo. All’alba era intervenuta una “manina” che aveva cancellato i due commi per evitare che potesse avvantaggiarsene anche la comunità di don Gelmini, ad Amelia, dove il comune era impegnato in un estenuante guerra di trincea con il fondatore.
Volontà politiche diverse, anche se appartenenti allo stesso schieramento, avevano spinto in direzioni opposte. La verità era che i lunghi anni di travagliata convivenza con San Patrignano avevano insegnato a me e all’insieme dei governanti locali della nostra regione, di cui mi ero fatto portavoce con quella iniziativa, a compiere una distinzione fondamentale. Una cosa era l’appartenenza politica, altra il valore di quanto era stato realizzato attraverso la comunità e soprattutto che nulla poteva essere inchiodato a quanto era avvenuto in passato.
I nostri interlocutori sarebbero cambiati, sarebbero cresciuti, avrebbero potuto assumere un diverso punto di vista nel rapporto con il pubblico, nella misura in cui anche noi fossimo cambiati e avessimo provato a capire il loro punto di vista. Non si poteva consegnare agli strumenti limitati ed obbligati della via giudiziaria un rapporto che aveva invece uno spessore sociale, culturale ed umano straordinario.
Sergio Gambini