(Rimini) “Chiediamo di riaprire i nostri negozi prima di Pasqua, mettendo fine alla discriminazione delle aperture che è in corso". Sono le parole di Giammaria Zanzini, presidente di Federmoda-Confcommercio della provincia di Rimini. "Siamo contenti che alcune realtà siano aperte e non vogliamo certo innescare una guerra fratricida tra settori, anzi, ma vediamo che i provvedimenti del governo Draghi finora sono stati sulla stessa scia di quelli del governo Conte, sia per quanto riguarda le chiusure, sia per gli indennizzi a fondo perduto. A calcoli fatti, le imprese a cui è stata imposta la chiusura percepiranno “sostegni” le cui cifre vanno dall’ 1,7% al 5% rispetto alla perdita di fatturato. Ciò significa che chi ad esempio nel 2020, rispetto al 2019, ha perso 40 mila euro percepirà 2 mila euro. È inammissibile e ingiustificabile".
A livello territoriale, "i dati che emergono dal Rapporto sull’economia di Camera di Commercio della Romagna per la nostra provincia, con il crollo del turismo e del commercio e l’impennata di Cassa integrazione e disoccupazione, non fanno altro che fotografare una crisi ben nota a noi commercianti. Ma il -10,7% delle vendite 2020 rispetto all’anno precedente non è un dato che si possa associare direttamente al nostro settore, quello del tessile che comprende abbigliamento, calzature, intimo e pelletteria che di perdite ne conta almeno il quadruplo. Basta dare un’occhiata al saldo delle imprese del commercio al dettaglio nella provincia di Rimini, con un 2020 che ha visto scomparire 174 negozi (269 le aziende cessate a fronte di 95 iscrizioni), di cui 48 sono venute meno nel solo settore calzature e abbigliamento (dati elaborati da Camera di Commercio della Romagna su fonte Infocamere StockView). E le ripercussioni sul 2021 devono ancora arrivare".
Questa fotografia "ci vede in ginocchio, ma che evidentemente non è stata abbastanza chiara per permetterci di avere ristori concreti da parte dello Stato. Anzi, con il nuovo DL Sostegni il nostro comparto viene ulteriormente penalizzato e i motivi sono presto spiegati. A gennaio e febbraio 2020 non eravamo ancora entrati nella pandemia e i negozi hanno lavorato normalmente, pur pagando la crisi dei consumi già in atto, e dunque per fare le cose per bene bisognerebbe calcolare il confronto nei dieci mesi a seguire e non sull’intera annualità. In più la quasi totalità degli esercenti ha trascorso il 2020 cercando di fare fronte agli impegni economici con i fornitori per i contratti firmati precedentemente al Covid, vendendo molta merce sottocosto per ‘fare cassetto’. Questo è accaduto per tutta l’estate. Quindi, se anche i volumi di vendita ci sono stati, anche in quei mesi di apertura è venuta a mancare la marginalità".
Al settore moda "serve un sostegno immediato, reale, congruo e proporzionato alle effettive perdite, soprattutto slegato dalla soglia minima del 30% del fatturato, perché i prodotti di moda seguono le tendenze delle stagioni stilistiche e quindi sono soggetti a rapidissima svalutazione. Cosa che non è avvenuta. I saldi poi sono serviti solamente a pagare affitto, tasse, spese vive, fornitori e personale (per chi ce l’ha fatta…), con margini pressoché azzerati. Così si mette a rischio non solo l’impresa singola, ma addirittura il modello di business. Come commercianti di moda ordiniamo le collezioni anche un anno prima dell’arrivo della merce e spesso gli ordinativi minimi sono imposti dal brand. Per noi si tratta di investimenti di centinaia di migliaia di euro, che come accaduto l’anno scorso rimangono fermi in magazzino. Per questo continuiamo a chiedere con forza anche a questo governo un indispensabile contributo sulle eccedenze di magazzino sotto forma di un credito d’imposta del 30% sulle rimanenze. Riteniamo indifferibile anche un intervengo sulla rimodulazione dei canoni di locazione, per cui come Federmoda-Confcommercio abbiamo portato più di una proposta ai tavoli istituzionali. Abbiamo bisogno di supporto economico a fondo perduto e di un facile accesso al credito, ma in realtà quello che vorremmo è potere tornare ad aprire i nostri negozi. Non si comprende il motivo per il quale un negozio di abbigliamento o calzature – conclude Zanzini – debba essere compreso tra quelle poche attività costrette, in zona rossa, alla chiusura per decreto, nonostante gli investimenti fatti dagli imprenditori del settore nell’ambito della sicurezza e per il rispetto dei protocolli”.