(Rimini) Se c’è una possibilità che santità e gusto per la vita possano andare a braccetto, l’esempio è testimoniato da Enzo Piccinini, chirurgo emiliano scomparso nel 1999 in un incidente sulla A1. A fornire l’occasione per un affondo sulla sua figura è stata la presentazione del libro biografico ‘Ho fatto tutto per essere felice. Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo’ firmato dal giornalista Marco Bardazzi, ieri sera nei giardini della colonia Comasca di Rimini. «Ho letto d’un fiato il libro di Bardazzi, scritto con grande sapianza tecnica. Mi ha trasmesso una serie di episodi essenziali che mi hanno portato a riconoscere quel tipo di santità che Enzo ha rappresentato, la santità di cui ha bisogno il mondo moderno, quella santità che come diceva anche San Giovanni Paolo II, consiste nel godersi la vita, nel godersi lo sforzo di prendere il meglio della propria vita», ha raccontato l’oncologo Ludovico Balducci, Sigismondo d’Oro nel 2002, che ha diretto il primo programma di Oncologia Geriatrica nel mondo al Moffitt Cancer Centerda a Tampa (Florida), amico di Piccinini.
Balducci, nel suo intervento audio inviato dagli Usa, non usa parole a caso. Per Piccinini è infatti iniziato il processo di beatificazione. Specializzato in chirurgia vascolare nel 1979, nel 1980 Piccinini si trasferisce all’Università di Bologna, continuando a collaborare in numerosi progetti di ricerca con le Università di Harvard, Chicago e Parigi. Piccinini, l’uomo dei paradossi. «Perché questa sera siamo così in tanti a parlare di una persona che non c’è più da oltre 20 anni? La vita di Enzo era piena di paradossi», rileva Emmanuele Forlani della Fondazione Piccinini, moderatore della serata. Tra gli ospiti, Tiziano Carradori, direttore generale della Asl Romagna.
«Aver letto questo libro ha stuzzicato molto la mia curiosità, e ora mi manca la possibilità di soddisfarla: di conoscere l’uomo», ammette sorridendo Carradori. «Il mio pensiero e i miei valori non sono necessariamente sovrapponibili a quelli che hanno determinato l’appartenenza di Enzo Piccini. Eppure nel racconto di Bardazzi ho ritrovato degli elementi che riconosco miei». Primo tra tutti, «quel “mettere il cuore” nelle cose che si fanno, per esempio, dare senso alle cose. Questo io lo condivido totalmente». Quando «si ha a che fare con l’uomo, in senso lato, c’è sempre una parte mezza vuota del bicchiere che noi dobbiamo cercare di colmare e ciò che ci consente di farlo è il senso che si dà alle cose che facciamo».
Un senso delle cose, che richiama il senso del «limite umano, la malattia, la sofferenza, la morte», e la possibilità di «viverlo bene con serenità». Questo senso del limite, «da tanti punti di vista, non solo in quello della sofferenza, vuol dire essere consapevole dell’incertezza che caratterizza le nostre vite». Una consapevolezza che, però, «non ti porta a rinchiuderti o alla paura, ma alla coscienza della necessità dell’altro, che può essere un sostegno, un arricchimento il confronto con i più qualificati. Da persona curiosa, quale sono, sono sempre contento quando trovo un altro diverso da me».
Per Carradori, ciò che in Piccinini è stato «straordinariamente aderente» al suo concetto di professione medica è il “senso della regola”, «che non può mai impedire alla persona di agire nell’interesse primario di colui che sta servendo, che sta assistendo. La regola è necessaria, utile, e per certi versi insostituibile, ma quando annichilisce la capacità dell’individuo di strasgredirla nell’interesse del bene (della sopravvivenza dell’altro, comincia ad essere qualche cosa di diverso da quello che ne ha generato il senso».
Restando sul libro, l’autore Marco Bardazzi ne ha delineato la genesi. «È nato alla fine del 2019. Ci siamo ritrovati a lavorarci sopra, si tratta di un’opera collettiva, nel febbraio dell’anno scorso, quando il mondo è cambiato. E così anche il libro è cambiato, ne è cambiato il senso: l’esigenza di tornare a parlare in un certo modo di malattie, di ospedali, della morte, del rapporto col limite. Quando guardo al lavoro fatto, penso di essere stato in un certo senso “usato”. Penso che Enzo avesse una grande voglia di tornare tra noi e ha trovato un giornalista che aveva voglia di scrivere e tanti suoi amici che avevano voglia di raccontare». Il libro è cresciuto durante il lockdown «nei lunghi mesi di isolamento», passati da Bardazzi a intervistare in video call nei loro ospedali «gli amici di Enzo, in camice e mascherine, mentre lottavano contro il covid. Quella di Enzo è una storia che inizia e finisce nel ‘900, ma è piena di spunti per l’oggi». Durante il cammino alla scoperta di Enzo Piccini, Bardazzi racconta di essersi scoperto sorpreso «dalla sua modalità di lavorare», che ha conservato sempre «il bisogno di voler essere felice, di voler mettere il cuore in quello che faceva», e di «rispondere a qualcosa che lui aveva incontrato quando aveva 18 anni, passando poi il resto della sua vita a investire su quell’incontro, a capire cosa quell’incontro diceva a lui come persona, ai suoi amici, al suo bisogno di mettere su una famiglia, e tantissimo al suo lavoro». L’incontro è quello con il movimento di Comunione e liberazione, e con il suo fondatore, don Luigi Giussani. «Nel suo percorso emerge fortissimo il bisogno di avere un ancoraggio, un ancoraggio legato a quello che lui ripeteva sempre: che da soli non ce la si fa. Tu puoi arrivare fino a un certo punto con la tua tecnica, ma poi hai bisogno di un confronto. Come tutti noi aveva bisogno di un centro affettivo con cui confrontarsi. Per lui questo centro si chiamava don Luigi Giussani ed è diventato il punto di ancoraggio di un metodo di lavoro».
Metodo di lavoro che hanno verificato colleghi e soprattutto pazienti di Piccinini. «Il metodo Enzo io l’ho visto coi miei occhi toccato con le mie mani», racconta un amico e paziente di Piccinini, l’imprenditore Domenico Pirozzi. «Trent’anni fa mi è stato diagnosticato un tumore allo stomaco. Il 2 agosto sono stato ricoverato, il 6 operato. Ancora oggi ricordo passione e dedizione con cui sono stato seguito dalla sua equipe, attenzioni che non erano riservate a me in quanto suo amico, ma a tutti i pazienti. Anche il mio compagno di stanza era rimasto stupito di come il gruppo fosse capace di prendersi cura non solo di lui ma anche di tutta la sua famiglia». Piccinini «era un chirugo schietto», dice anche Pirozzi.
L’andare oltre le regole «non irresponsabilmente ma come esigenza di verità», «il non scandalizzarsi del limite» e il senso della morte «come qualcosa che c’è e con cui bisogna fare i conti sono alcune delle cose più soprendenti che ho trovato. Insieme alla sottolineatura che Enzo faceva sempre che non si può privare una persona del fare piena esperienza della sua morte e che quindi va accompagnata in quel momento perché è un momento chiave della sua vita», chiosa l’autore verso il finale.