Caro direttore,
mi ha interrogato profondamente quanto successo al Liceo Serpieri in questi giorni. La provocazione che avverto non è tanto riferita a delle scelte legittime che l’istituto ha preso in merito alla possibilità per gli studenti di poter cambiare nome, quanto all’omissione costante e continua di tutto ciò che sta sotto tali decisioni.
Quando si parla di lgbt, teoria gender e bullismo sui giornali si affronta solo la natura ideologica e strumentale delle questioni. Troppo spesso infatti (per non dire quasi sempre) ci si dimentica che dietro alle etichette di cui sopra ci sono nomi e cognomi, ovvero persone.
Quand’anche fosse garantito il diritto (cosa, che sia ben chiaro, necessita di un maggior ordine da un punto di vista legislativo), la partita "umana" in ballo non sarà automaticamente risolta, anzi. Rispondere a fenomeni di bullismo o di discriminazione di genere con la possibilità di cambiare nome non è una risposta. Può essere uno strumento forse. Ma senza una riposta, meglio ancora, una proposta lo strumento finirà per essere "strumentalizzato" come di fatto sta accadendo. Ma allora chi risponde alla ferita umana dello studente bullizzato? E di quella del bullo? Noi adulti abbiamo qualcosa da dire e/o da proporre? Sappiamo starci di fronte veramente al dramma?
Ho sempre rifiutato l'idea che l'espressione di sé necessiti dell'azzeramento di limiti e relazioni. L'autodeterminazione non risponderà a quei drammi.
Per quanto difficile, invadente e provocante sia una relazione, umana intendo, veramente e drammaticamente umana, è l'unica strada per la vera scoperta di sè e degli altri.
E il “nome” di ciascuno è l’inizio identificativo di qualsiasi relazione.
Tutti coloro che sentono questa come preoccupazione prevalente, e tutto il resto a servizio, prendano coraggio là dove si trovano (in famiglia, a scuola, al lavoro) per offrire una vera relazione ai nostri giovani.
Io, per questo, ci sono.
Stefano Casalboni