Il 12 giugno si torna a votare per un referendum abrogativo che questa volta ha a che fare con la giustizia. I quesiti sono cinque (di difficile comprensione) e vanno dalla incandidabilitá dei condannati per reati gravi, ai limiti della costodia cautelare, alle regole che disciplinano la carriera dei magistrati.
In questi giorni, se ne è parlato in qualche classe di scuola superiore e in qualche dibattito fra amici e già questa potrebbe essere una notizia: la richiesta di ragazzi e professori di essere informati e di comprendere la posta in gioco per poi poter esercitare il loro giudizio a ragion venuta. Nel silenzio generale (e voluto) sul tema, infatti, il rischio è che importanti questioni vengano decise o quantomeno indirizzate in un clima di pressoché totale disinformazione dei cittadini, i quali, salvo un’iniziativa personale e statisticamente sempre meno rilevante, rimangono all’oscuro delle implicazioni del voto o dell'astensione.
Il silenzio generale deriva certamente dal fatto che il fronte politico dei no punta sull’astensionismo e il fronte del sì, in vista di una verosimile sconfitta, non vuole esporsi. Si guarda come sempre - e questo ormai è un segno dei tempi - solo al proprio orticello. Ma dipende anche dal fatto che alcuni quesiti che riguardavano argomenti più scottanti (eutanasia, liberalizzazione droghe leggere, responsabilità magistrati) e che avrebbero forse acceso maggiormente il dibattito, non saranno invece oggetto del referendum perché non hanno superato il vaglio di ammissibilità da parte della Corte Costituzionale.
Vale anche la pena registrare che, in una democrazia rappresentativa, lo strumento del referendum popolare ha natura residuale ed eccezionale: può capitare che, su tematiche di particolare importanza o controverse, la rappresentatività del parlamento non sia ritenuta sufficiente e si renda pertanto necessaria una consultazione popolare. Così, fino agli anni 90, il popolo italiano è stato chiamato a votare in occasione di referendum solo eccezionalmente (ogni 4 o 5 anni), su grandi temi (si pensi al divorzio o all’aborto) e con quesiti chiari e semplici. Dagli anni 90 in poi, invece, abbiamo assistito a un ricorso frequente allo strumento referendario, su tematiche sempre più particolari e tecniche e dunque di difficile comprensione per gran parte della popolazione, anche per via di campagne condotte a colpi di slogan spesso fuorvianti. Uno dei motivi principali di questo abuso dello strumento referendario è la debolezza della politica e l’incapacità del parlamento, su alcuni temi, di svolgere il compito di legiferare realizzando una mediazione tra istanze ed identità differenti e a volte contrapposte. Non riuscendovi, si ricorre al popolo perché tolga le castagne dal fuoco in una sorta di deresponsabilizzazione dell’organo che, al contrario, sarebbe a ciò deputato.
Come noto, il tema della giustizia è in Italia uno di quelli scottanti per eccellenza: da quando in particolare la magistratura ha iniziato a svolgere un ruolo nella vita politica (da tangentopoli a Berlusconi e fino ai giorni nostri), si è iniziata ad invocare la riforma della giustizia che fino ad oggi tuttavia nessun governo è mai riuscito a realizzare. Del resto, non si tratta di un compito facile: occorre un dialogo senza arroccamenti fra avvocatura e magistratura e fra le forze politiche alla ricerca dei giusti compromessi tra le esigenze in gioco che sono a volte contrapposte.
Ad esempio, non vi è dubbio che in Italia ci sia un enorme problema legato all'utilizzo della custodia cautelare che, come noto, priva l'indagato della libertà personale senza che sia intervenuta una sentenza di condanna e solo sulla base di gravi indizi di reato e di esigenze cautelari (pericolo fuga, inquinamento prove, reiterazione del reato). Ma, limitare fortemente la possibilità per lo stato di ricorrere alla misura in caso di pericolo di reiterazione è la giusta soluzione? Si tratta come è ovvio di trovare il giusto contemperamento tra la presunzione di innocenza e la libertà personale da un lato e l'esigenza dello Stato di reprimere i reati e tutelare la collettività e forse non sarà sufficiente l'esito eventualmente positivo del referendum a risolvere il problema.
Analoghe considerazioni possono valere per la separazione delle funzioni che può rappresentare un primo passo verso l’auspicabile separazione delle carriere (che è tema ben più ampio) o la valutazione dei magistrati. Problemi complessi per i quali il referendum non sembra essere lo strumento più adeguato. Mentre dovrebbe essere vista favorevolmente l'abolizione del decreto Severino (automatica incandidabilità o sospensione per i condannati per reati gravi), introdotto in Italia sulla spinta di un giustizialismo che non dovrebbe mai prevalere sulla presunzione di innocenza e che conferisce al potere giudiziario, non sempre "distaccato", il potere di interferire pericolosamente nella vita polica del paese.
D'altra parte, prendere posizione è un dovere: che il popolo ci sia ed esprima le sue indicazioni, contribuendo al dibattito parlamentare sui questi temi, costituisce un argine a quel potere che tutto cospira a tacere di noi, che ci vuole distratti o addormentati.
A ben guardare, come sempre, la vera emergenza sembra essere quella che riguarda le persone: in parlamento e in magistratura, come sul lavoro o in famiglia o davanti ad un appuntamento elettorale, occorrono uomini e donne di un “certo tipo”: con ideali un po' più grandi della sola Coltivazione del proprio orticello, capaci di dialogo e mediazione, capaci di rinunciare a qualcosa nel perseguimento di un bene maggiore, capaci di ricredersi quando la realtà, guardata senza paraocchi, mostri una evidenza contraria all'idea che ci si era fatti... solo così sarà possibile riformare la giustizia, perchè la legge è strumento fondamentale, ma sempre in mano agli uomini (almeno fino a quando non saremo sostituiti dagli algoritmi).