Il memorabile sindaco di Rimini Walter Ceccaroni, ha narrato che, nei primissimi anni del dopoguerra, propose con insistenza a molte famiglie di mezzadri del forese di abbandonare le attività agricole e di trasferirsi sul litorale per diventare imprenditori del turismo. Sinceramente non so dire l’entità reale del fenomeno, in ogni caso la testimonianza segnala una delle principali preoccupazioni di chi guidava allora la nostra comunità. Non sarebbe stato possibile avviare la crescita del turismo, secondo un modello basato sulla piccola impresa, se non ci fossero state risorse umane con esperienza ed attitudine imprenditoriale per farlo decollare. La mezzadria nei decenni le aveva prodotte ed a questa miniera di “capitale civile” pensò di rivolgersi Ceccaroni per fare partire Rimini.
Questo mi è venuto in mente leggendo le osservazioni che alcuni esperti hanno recentemente avanzato sul sistema turistico del riminese. La cosa che più mi ha impressionato è la stima sugli immobili alberghieri in vendita e sull’esodo progressivo e costante dal settore della tradizionale componente familiare dell’imprenditoria locale. A ciò si associa la mancata sostituzione con nuovi protagonisti, l’obsolescenza della matrice di gestione aziendale e l’incapacità di attrarre nuovi investitori. Senza voglia di fare impresa è legittimo attendersi il progredire di un lento declino, di cui peraltro si avvertono già numerosi sintomi, un arretramento della competitività della nostra destinazione e dei nostri prodotti.
Al netto dell’andamento più o meno fortunato delle ultime stagioni, ciò che emerge, infatti, è una sostanziale stagnazione e ripetitività dell’offerta turistica, cui corrisponde un assestamento verso fasce di mercato medio basse della domanda.
Si riscontra una scarsa spinta all’innovazione del prodotto turistico. Le contingenze favorevoli che hanno visto nel corso dei decenni, spesso in corrispondenza di eventi critici come quello delle mucillagini, mutare, integrare e rinnovarsi il prodotto grazie a nuove idee e nuovi investimenti pubblici e privati, non sembrano avere più la forza di riprodursi.
Non è così ovunque. Il tunnel della pandemia che si è saldato con la crisi energetica conseguenza della guerra in Ucraina, sta rapidamente cambiando i mercati della vacanza. Si registra un grande interesse da parte di investitori internazionali per il brand turistico italiano, per la sua ricchezza e varietà di proposte. Località che abbiamo sempre considerato assai meno attrattive della nostra stanno calamitando investimenti importanti mirati ad un’offerta di fascia medio-alta. Jesolo per esempio.
Al contrario noi viviamo un reale pericolo di esaurimento del “capitale civile” autoctono, rappresentato dall’imprenditoria diffusa e di progressivo abbandono delle attività turistiche come asse portante dell’economia e della società locale. A causa di ciò la riviera di Romagna può essere condannata a restare ai margini dei cambiamenti in corso ed essere destinata a diventare la bella addormentata del turismo italiano.
Per il suo risveglio, come è evidente, non è bastata l’ambizione e la grande mole di investimenti che la mano pubblica ha realizzato negli ultimissimi anni nel comune di Rimini ed in molti di quelli limitrofi. Sul versante privato il quadro normativo esistente non ha certo incentivato investimenti e innovazione.
Cos’è che non funziona e rischia di renderci incapaci di adeguare la nostra offerta ai cambiamenti del mercato della vacanza?
C’è una rigidità complessiva del nostro sistema che lo condanna a ripetere all’infinito il modello attraverso il quale si è affermato nei decenni passati.
Prevalenza di strutture ricettive di piccole dimensioni, con conseguente difficoltà di adattarle ai nuovi standard della domanda; prevalenza di imprese a gestione famigliare inadeguate a perseguire progetti di accorpamento o di investimento importanti; servizi collaterali all’offerta alberghiera fortemente datati e non corrispondenti alle attese attuali dei consumatori; tessuto urbano indelebilmente segnato dalle edificazioni passate e da esse reso praticamente immodificabile.
Un circolo vizioso nel quale si intrecciano assetti proprietari fortemente condizionati dalla rendita immobiliare, regolamentazione pubblica dalla forte impronta vincolistica e assenza di strumentazione fiscale e finanziaria capace di incentivare i nuovi investimenti. Un circolo vizioso che purtroppo va ben al di là dei noti ostacoli a fare impresa che affliggono il nostro paese.
Gli obiettivi di rigenerazione e qualificazione urbana, che pure sono stati dichiarati da tutti i protagonisti della pianificazione territoriale nel corso degli ultimi decenni, nella fascia di maggiore concentrazione delle attività turistiche, sono rimasti sostanzialmente inespressi.
Il fallimento più eclatante è quello delle previsioni del Piano Paesaggistico Regionale. Dopo 35 anni, nessuno lo può negare, quei vincoli hanno consegnato immobili e porzioni strategiche del territorio, come le aree delle colonie, al degrado e all’abbandono, compromettendo, in modo temo definitivo, beni storici di grande pregio.
Tuttavia, anche dalla cassetta degli attrezzi cui sono ricorsi coloro che hanno avuto il compito di pianificare il territorio a livello locale, non sono arrivati strumenti davvero efficaci.
I comparti urbanistici in zona turistica, più o meno rigidi a seconda dell’evoluzione delle normative nazionali e regionali, che avevano l’obiettivo di favorire accorpamenti di strutture ricettive non hanno prodotto alcun esito. Neppure le premialità di cubatura, previste più recentemente per le ristrutturazioni, sono state sufficienti ad innestare un ciclo significativo di riqualificazione. L’unica via d’uscita, seppur farraginosa e troppo discrezionale, per immobili turistici ormai fuori mercato è apparsa l’abbandono del vincolo di destinazione alberghiero a favore dell’edilizia residenziale, penalizzando aree che avevano invece un disperato bisogno di servizi. Anche l’urbanistica improntata alla perequazione, con titoli edilizi capaci di volare ed atterrare su aree diverse da quelle di origine, non ha registrato risultati concreti.
Insomma, le “mappe” della fascia turistica da decenni non sono sostanzialmente mai cambiate.
Temo che se continueremo ad intervenire con quegli attrezzi sarà difficile invertire la tendenza, l’erosione del nostro “capitale civile” sarà veloce e inarrestabile e il nostro futuro si chiamerà declino.
Per questa ragione occorre prendere atto che bisogna rapidamente cambiare cassetta degli attrezzi. Quello urbanistico non può essere l’unico strumento di intervento da mettere in campo, da solo non funziona. Per rigenerare la voglia di fare impresa dell’imprenditoria locale ed attrarre investitori da fuori ci vogliono strumenti fiscali mirati agli obiettivi di rigenerazione urbana, non bastano i bonus e ci vogliono risorse e strumenti finanziari per attivare quella partnership pubblico privato indispensabile per superare il blocco imposto dalla rendita immobiliare.
Questa volta non serve andare a Vergiano o Gaiofana. Sono indispensabili invece risposte adeguate da Roma e Bologna.
Sergio Gambini