Su sollecitazione di qualche amico e poiché seguo ancora le vicende di Banca Popolare Valconca, sia come socio, sia come ex-amministratore (2017-2019), provo a rispondere, basandomi su qualche semplice ragionamento di economia aziendale, alle considerazioni svolte su “La Piazza” per ben due volte dall’ex-presidente Giuseppe Vanzini.
Vanzini sostiene, in parole povere, che il valore fissato per il concambio dall’esperto nominato dal Tribunale è un valore inaccettabile (e quindi si dovrebbe votare contro la fusione) poiché troppo modesto e penalizzante per Banca Popolare Valconca. Egli sostiene tutto questo basandosi unicamente sui dati di bilancio e su una valutazione che, in termini accademici, da un lato chiameremmo di patrimonio netto contabile (il patrimonio così come risultante dal bilancio), dall’altro, di patrimonio netto tangibile (il valore dei cespiti, immobiliari e non). Sul valore al metro quadro delle sedi di proprietà inviterei Vanzini a fare qualche riflessione su sedi storiche, a Rimini, come a Riccione, in zone centralissime, occupate in passato da banche e a lungo tempo rimaste (più d’una lo è ancora) desolatamente sfitte e inutilizzate.
Ma parliamo di patrimonio netto contabile che, pur significativamente “asciugato” dagli effetti della visita ispettiva di Bankitalia nell’autunno scorso, sarebbe, secondo Vanzini, la vera controprova di una sottovalutazione e di una svendita della banca: paragonando infatti i due patrimoni, quelli dell’incorporante (BPL attraverso Blu Banca) e dell’incorporata BPV, e facendo, quindi, la fotografia istantanea dei due valori, emergerebbe una disparità intollerabile.
È la legge del buon senso e delle buone prassi, prima ancora dei principi contabili, quella che indica nella continuità aziendale il requisito fondamentale per qualunque tipo di impresa, e quindi anche per BPV, per la prosecuzione dell’attività attraverso un capitale di funzionamento adeguato, che mostri che la banca è in grado di produrre ricavi e utili. Il che pare francamente impossibile in assenza di un qualunque piano industriale che, come Vanzini riconosce, tutti i CdA che si sono succeduti dal 2017 in poi, non solo su sollecitazione di Banca d’Italia, non sono riusciti a fare. Purtroppo, l’unico è stato presentato in forma di proposta aggregativa da Banca Popolare del Lazio e con essa si devono fare i conti. Una banca non va avanti perché ha in pancia una partecipata, CSE, che, per ora, è molto profittevole; se il mercato del credito va consolidandosi, con fusioni sempre più numerose, un motivo deve pur esserci, compreso il fatto che esternalizzare alcune funzioni, in tempi di digitalizzazione spinta e dimensioni sempre più grandi, non è detto convenga ancora. Ad ogni modo l’ipotesi che il marchio sopravviva alla banca è tutt’altro che remota e fantascientifica, come più volte avvenuto in Italia nel corso di questi anni e quindi non vedo fondata l’obiezione.
Pertanto, valutare BPV sulla base del valore di mercato delle sedi sotto il profilo immobiliare, e della partecipazione CSE, senza alcun legame logico tra questi valori, significa dimenticare che il business bancario consiste nell’intermediazione creditizia e nella vendita di servizi, proiettata in un futuro che offra una strategia credibile. Strategia che il patrimonio di BPV non consente. Non lo consente perché il patrimonio di Vigilanza è sceso troppo e non è immaginabile che qualcuno, senza alcuna prospettiva di piano industriale, effettui iniezioni di liquidità solo per essere in pari con i requisiti patrimoniali: occorre un capitale di funzionamento adeguato a produrre, in prospettiva, ricavi e reddito. Ma questo patrimonio non c’è ed è evidentemente da questo che discende la valutazione fatta dal perito nominato dal Tribunale. D’altra parte, la conseguenza di un voto contrario sarebbe un probabile commissariamento da parte di Banca d’Italia, vicenda da non augurarsi anche perché per certo sparirebbe proprio il marchio. Da ultimo, come avrebbe ricordato il mio Maestro, prof.Giampaoli, valutare un’azienda, così come una banca, nel modo che invita a fare Vanzini, significa adottare un’ottica di liquidazione, ovvero proprio quella che egli dice di voler evitare.
Alessandro Berti, professore associato di tecnica bancaria e finanza aziendale presso la Scuola di Economia dell’Università degli Studi di Urbino