Nel 1993 un teologo cattolico, nel contesto di un vivace confronto col collega valdese Paolo Ricca, considerando la possibilità di una diversa modalità nell’esercizio dell’autorità del papa, parlò della necessità di una «essenzializzazione» circa la testimonianza del Dio vivente da parte dei cristiani.
Si trattava di Joseph Ratzinger, il quale, divenuto nel frattempo il 265° papa della chiesa cattolica, circa vent’anni dopo, l’11 febbraio del 2013, compì il più grande gesto riformatore del ministero petrino nell’epoca moderna con la sua storica rinuncia. Sono ormai trascorsi altri dieci anni e la sua morte ci trascina ancora potentemente all’essenziale, a partire dalle ultime parole pronunciate: «Signore, ti amo!».
In una sua nota conferenza sull’ecclesiologia del Vaticano II durante il Giubileo del 2000, l’allora prefetto per la congregazione per la dottrina della fede aveva riproposto la questione già espressa in altri suoi interventi: «Una Chiesa che esiste solo per se stessa è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa […] è “crisi di Dio”; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere».
Ratzinger ci ha testimoniato con tutta la sua vita e la sua opera che non c’è riforma se non a partire dall’essenziale. Proprio qui a Rimini offrì un prezioso contributo sul tema concludendo il Meeting del 1990 con una lectio magistralis sulla riforma ecclesiale, la cui attualità è stata posta in evidenza da papa Francesco che ne ha ripreso i contenuti nel Messaggio alle Pontificie Opere Missionarie del 21 maggio 2020.
Superando ogni tentazione clericale, riconoscibile tanto nelle posizioni tradizionaliste quanto negli schieramenti progressisti, Ratzinger osservò che «quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà», auspicando per la Chiesa l’inizio, «a tutti i livelli, di un esame di coscienza senza riserve». Non è, infatti, «di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». Questo «non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza», ma nel momento in cui la Chiesa stessa si riconosce «nel suo puro carattere di servizio», ritraendosi «davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale».
La riforma, costitutiva della natura stessa della Chiesa in quanto organismo vivente, fu dunque descritta da Ratzinger come un continuo ritorno all’essenziale, nel recupero di quella dimensione la quale «non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato», secondo l’immagine attinta da Michelangelo, il quale «concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà; non come un fare».
La riforma autentica consiste perciò in una ablatio, ovvero nel lasciare spazio all’opera dell’unico vero Scultore che è Dio stesso, togliendo ciò che appesantisce e ripartendo dall’essenziale. In un intervento precedente, anch’esso citato da papa Francesco nella medesima occasione, il teologo bavarese aveva precisato che la Chiesa non può disporre della stessa istituzione ecclesiale con le proprie decisioni poiché essa è costituita «dall’irrompere di qualcos’altro», per cui «non possiamo mai crearcela da noi stessi». Per questo, sottolineava Ratzinger, «la Chiesa deve continuamente verificare la sua propria compagine istituzionale, perché non si appesantisca eccessivamente, non s’irrigidisca in un’armatura che soffochi quella vita spirituale che le è propria e peculiare».
I protagonisti di questa riforma non sono dunque gli attivisti «auto occupati» in strutture clericali, ma dei peccatori perdonati. Lo «Scultore» compie infatti questa ablatio attraverso il perdono che è «il nucleo di ogni vera riforma», la quale si realizza attraverso uomini e donne abbracciati dallo sguardo misericordioso di Cristo in un incontro imprevisto e imprevedibile, come è accaduto a Zaccheo o alla Samaritana.
Uomini e donne in continua ricerca, i quali proprio in quanto credenti sono ancora più inquieti poiché la «conoscenza della fede non soffoca il pensiero, ma lo pone in una inquietudine che è feconda».
La riflessione di Ratzinger sulla ragionevolezza dell’atto di fede ha posto infatti in evidenza che, mentre nel procedimento scientifico il pensiero giunge al termine del suo percorso con l’assenso, nella fede esso rimane in movimento, non si ferma a ciò che è evidente, poiché il cuore – inteso in senso biblico, come la sede del desiderio e della ragione umana – toccato da Dio, va oltre e, quanto più conosce tanto più desidera conoscere. La sperimentata corrispondenza tra il proprio desiderio e l’incontro con Cristo allarga il desiderio stesso, che continua a cercare ciò che ha trovato. Per questo San Tommaso poteva affermare che nel credente «il moto del pensiero rimane inquieto».
Joseph Ratzinger ci ha così insegnato che senza vivere l’inquietudine di una fede verificata dalla ragione nell’esperienza quotidiana non saremo in grado di intercettare la domanda dell’umanità contemporanea.
Nel cammino sinodale della Chiesa di oggi ci riscopriamo più che mai bisognosi del suo richiamo all’essenziale per un’autentica riforma ecclesiale, che non si riduca a dibattiti su strutture clericali ma generi invece luoghi in cui tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, credenti e non credenti, possano riconoscere una dimora per la voragine della propria inquietudine, la quale è una «partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti».
Roberto Battaglia