La Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata a Rimini nel 1968 da don Oreste Benzi, ha un nuovo responsabile generale che succede a Paolo Ramonda, in carica per quindici anni. Si tratta di Matteo Fadda, 50 anni, torinese, laureato in filosofia e tecnico informatico. Insieme alla moglie Carla vive a San Giorgio Canavese, diocesi di Ivrea, in una casa famiglia con i loro figli naturali e molti altri accolti, alcuni con gravi disabilità.
Con lei arriva alla guida una terza generazione che quasi non ha conosciuto personalmente don Oreste. I suoi amici sono stati molto coraggiosi a sceglierla. Che significato ha questa scelta?
Don Oreste lo abbiamo incontrato personalmente solo una volta, poi lo abbiamo incontrato come parte del popolo nei due anni prima che mancasse. È mancata la relazione personale, ma in quegli anni ci siamo abbeverati al suo pensiero. Ricordo che il giorno in cui è mancato è stato un giorno di smarrimento perché noi eravamo lanciati dentro questo cammino.
Però è anche vero che don Oreste ci ha lasciato la sua spiritualità e il suo accompagnamento spirituale nel Pane Quotidiano che è un dono prezioso perché è una raccolta delle sue omelie e dei suoi commenti. Quindi lo abbiamo conosciuto anche di più dal punto di vista della sua spiritualità, perché è presente nella nostra quotidianità e ci accompagna. Forse la mia generazione è la prima che incarna il mandato della Santa Sede a rinnovarci guardando con fedeltà al carisma di fondazione, il nostro carisma vocazionale. Tenendo presente che il carisma del fondatore, il carisma che ha generato tutto questo non si ripeterà più, perché lui era don Oreste unico e irripetibile. Quindi di deve distinguere molto bene fra la figura di don Oreste, che con il suo carisma personale ha ospitato lo Spirito che ha dato origine alla nostra bella comunità, e invece l’eredità che ci ha lasciato che è il carisma di fondazione. Rimanere fedeli a questo carisma e rinnovarci guardando al futuro, questo è il nostro compito. Penso che il mio mandato, di successore di Ramonda, primo successore di don Oreste, dovrà incarnare sempre di più il ruolo di moderatore, cioè il ruolo del responsabile che consente una maggiore responsabilità partecipata, valorizzando ancora i fratelli che hanno conosciuto don Oreste personalmente, quindi tutta la nostra storia, ma dando anche slancio ai giovani, al futuro della comunità. Spero di essere all’altezza perché è un compito impegnativo. Di sicuro non potrò affrontarlo da solo, ho chiesto a tutti di aiutarmi.
Perché ha scelto di aderire alla Comunità Papa Giovanni XXIII, cosa l’ha attratto?
Quello che ci ha colpito della comunità è stata questa grande apertura senza porre condizioni, se non questo impegnativo carisma che si articola nei cinque punti della nostra carta di fondazione che è molto esigente come del resto lo è il Vangelo. Un’apertura strutturata, con serietà. Quello che ci ha colpito è la serietà della struttura che la comunità si è data nel tempo, non parlo tanto di regole o regolamenti ma proprio di struttura istituzionale. Mi riferisco a tutti quelli che lavorano nella comunità per sorreggere la possibilità che le persone che ne fanno parte siano in grado di aprirsi all’accoglienza, di condividere. Queste persone dell’istituzione supportano la vita quotidiana facendo un lavoro strutturalmente importante perché permette di sorreggere il carisma. Un’organizzazione che aiuta anche nella vita quotidiana perché siamo articolati in piccoli gruppi che si incontrano ogni settimana, i nuclei; poi un incontro mensile di un ambito più ampio che chiamiamo zona; gli incontri di spiritualità periodici, le assemblee. C’è quindi un modo di sostenersi nella quotidianità che è ben piantato per terra. Questo ci ha colpiti, avevamo conosciuto anche altre realtà, ma ci sembravano forme di spontaneismo un po’ fragili. L’altro aspetto è l’apertura ai più piccoli, ai più poveri che nessuno vuole, noi in particolare eravamo orientati ai bambini, ai disabili, quindi questo ci ha fatto sentire in famiglia.
Per motivi di famiglia non potrà girare in Italia e nel mondo. Come pensa di poter guidare una comunità così articolata e complessa e diffusa in tutto il mondo?
Questa è la nostra condizione di famiglia in questo momento, nella contingenza attuale abbiamo persone accolte che richiedono un’assistenza costante, continua, quotidiana. Non ne faccio un problema di programmazione, ho invece un approccio più di fede e di speranza. Penso questo: lo Spirito Santo non si contraddice, se ha chiesto alla nostra famiglia, a me e a mia moglie di svolgere questo servizio, sono sicuro che troveremo il modo di arrivare dove c’è necessità che io sia presente. E potrà essere una presenza fisica, lo spero; o magari qualcuno si muoverà di più e verrà lui in Piemonte a trovarmi; o magari si muoverà con la mia delega qualcuno dei responsabili. Non so bene ancora come ci organizzeremo, sono sicuro che lo faremo insieme agli altri responsabili, alle zone più lontane. Non ho la preclusione a viaggiare, adesso c’è una evidente difficoltà a farlo, ma la speranza è di riuscire a trovare il modo di fare tutto bene lo stesso senza mettere in crisi la famiglia e la comunità.
Invece che il pronome “io, lei usa spesso il “noi”, per indicare lei e sua moglie…
La responsabilità è mia personale e anche le azioni di governo che farò mi vedranno impegnato in prima persona. Il legame con mia moglie si fonda sul sacramento nel quale credo e ci fa essere un noi, vuol dire che lei è parte costitutiva della mia persona. Io ho questo incarico, mia moglie ha altri incarichi in famiglia, altri pesi da portare, però se noi due saremo uniti faremo tutto. La base sicura è il fatto di rimanere uniti. Noi ci conosciamo da quando avevamo quindici anni, ci siamo fidanzati a diciannove, adesso abbiamo 50 anni tutti e due, sono più gli anni che abbiamo vissuto come coppia che singolarmente. Fa parte del mio dna.
La sua personale esperienza cosa le suggerisce sul ruolo sociale della famiglia nella società contemporanea?
Sono cresciuto con un sacerdote di Torino che diceva che il primo mattoncino sul quale costruire la nostra società è la famiglia. E ho incontrato don Oreste che ci ha detto che il primo bisogno che la persona ha è quello di avere una famiglia. Sono proprio convinto di questo, la famiglia, per come siamo stati pensati e costruiti da Dio, è la cellula base della nostra società. Se rafforziamo la famiglia invece di demolirla, di renderla liquida come si cerca di fare da tutto il Novecento, come teorizzato dai filosofi del pensiero debole e poi messo in pratica dal consumismo, se noi rifondassimo la solidità della famiglia e lavorassimo su di essa come cellula base, penso che veramente la nostra società si baserebbe su mattoncini solidi. È la battaglia del Forum, nel quale Gigi De Paolo si impegna molto.
Lei finora è stato responsabile di Operazione Colomba, il corpo di volontari che va a vivere nelle zone di conflitto. Come vive la Comunità Papa Giovanni XXIII l’invito di papa Francesco ad aiutarlo nella profezia per la pace?
Per noi è fondamentale, prioritario, lavorare per la pace. Molte persone della comunità sono state obiettori di coscienza, io anche; i giovani di Operazione Colomba sono la punta avanzata di questa natura della comunità. Ci muoviamo anche su altri fronti. Don Oreste e poi anche Paolo hanno molto insistito nel chiedere l’istituzione del ministero della pace, cioè la scelta di lavorare per una struttura diversa che imposti i rapporti fra gli stati come rapporti di pace. Inoltre diciamo da tempo che è ora di disarmare la guerra. Cosa vuole dire? Convertire l’industria che alimenta la guerra in una industria di altro genere. La nostra non è semplicemente una critica contro la guerra o contro chi produce le armi ma vogliamo essere per la pace e quindi diciamo di invertire la rotta, di fare una rivoluzione copernicana. Invece di mettere al centro il profitto, mettiamo al centro l’umanità e il diritto a vivere in un mondo di pace. Il nostro impegno è anche con le istituzioni: giovedì scorso c’è stata la conferenza stampa per chiedere il disamo nucleare, noi abbiamo partecipato insieme alle altre associazioni cattoliche.
Lei era alla guida anche di Condivisione fra i popoli, la ong che coordina l’attività nei paesi di missione. Quindi già conosce lo stato della comunità nel mondo. Che idea se ne è fatto….
Ho iniziato a conoscerla, perché da tre anni ho svolto questo incarico. La comunità Papa Giovanni è nata in Italia, è nata in Romagna, poi si è sviluppata prevalentemente in Italia, quindi ha un carattere italiacentrico. Però è stata voluta da Oreste e riconosciuta profeticamente da Giovanni Paolo nel 2004 come comunità internazionale di fedeli. L’intuizione profetica di don Oreste è di espanderci in tutto il mondo. Oggi noi siamo in 42 Paesi, dobbiamo sempre di più imparare a valorizzare questa nostra identità internazionale. In questo periodo ne stiamo parlando molto all’interno della comunità cercando di capire quali strumenti darci per valorizzare questa dimensione internazionale. Sarò il lavoro dei prossimi anni, le modalità le dobbiamo trovare insieme.
Dopo la sua elezione, Paolo Ramonda le ha consegnato la reliquia della beata Sandra Sabattini: cosa rappresenta la testimonianza di Sandra per la vita di oggi della comunità?
Sandra è un dono enorme. Mi vengono i brividi a parlarne perché molto più grande di me e della mia capacità di comprendere. Quello che colgo è che uno dei simboli che Sandra rappresenta è l’essere perennemente giovani. Sia come capacità di attrarre i giovani, di tornare a riproporre come diceva don Oreste un incontro simpatico con Cristo; sia anche come mantenerci giovani dentro, anche a 50, 60, 70, 80, 90 anni, giovani dentro come lo era don Oreste. Questo gesto di Paolo non me lo aspettavo e lo vedo come un mandato: avere sempre un occhio di riguardo ai giovani e allo spirito della giovinezza, secondo il motto di don Oreste: le cose belle prima si fanno e poi si pensano. Sandra con tutta la sua bellezza spirituale rappresenta un grande dono per noi.
Valerio Lessi