L’artista riminese Alessandro La Motta ha esposto nelle scorse settimane per Ieg nello spazio Convivio del Palacongressi di Rimini. Adesso le opere in mostra, una ventina circa, sono diventate un catalogo, 'Abitare il mito', a cura dell'artista. Vi proponiamo l'introduzione di Roberta Tosi
La parte, il frammento, e poi il tutto.
Il mito accede a uno sguardo diverso del mondo, a un orizzonte che si addentra nell’invisibile, squadernando la realtà. Cos’è il mito? Ha a che fare con la verità, la verità ultima ma non è verità. A volte è una fragile brezza racchiusa tra le labbra di splendide dee e arcaiche korai ma è anche una folgore, una tempesta nascosta nei sogni dei temerari, nell’utopia di animi inquieti. Accede alla necessità, alla memoria, a radici che diventano narrazione oppure destino, ma è anche fenomeno e speranza, corrispondenza di senso e vertigine ineguagliata. Il mito attraversa così le ere, travalica il tempo nella sua forma del dare e del prendere, generando rappresentazioni e simboli e fede. E s’invera, diventando carne e vita, si fa storia, trova la sorgente e si scopre nel cuore dell’essere umano fin dalle sue origini.
Cammina. Strada tra le strade. E polvere e cenere.
A tratti scompare e, sopito, sembra dissolversi ma solo per poco. Lascia tracce di sé, il mito, tra le mani, nei colori e i respiri, nei luoghi bui senza nome. Non a tutti è concesso sentirne ancora il richiamo, sospeso nelle vocali mute, aggrappato alla mancanza o al desiderio.
A fare del mito un mito, ha scritto Jean-Louis Chrétien è ciò che dell’essere umano non può dirsi, se non in un modo che prescinda dal canto inquieto del tempo ovvero «[…] la passione, il dolore, il felice incontro e la gioia che arreca tormento.»
Qui, nelle fessure della materia, nelle insidie dell’esistenza, tra i suoi splendori e i suoi inafferrabili pensieri si sporge la mano del cercatore, del poeta, del pittore. Perché nel mito c’è qualcosa di irrinunciabile e che splende.
«Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.» Aveva detto Odisseo a Calipso, nei noti Dialoghi con Leucò di Pavese. Cosa cerca allora la mano di Alessandro La Motta? Cosa trattiene nel cuore quando lavora con l’olio, la cera, schiude il legno a raccogliere forme, impone al gesso, alla tela i gesti estremi di una bellezza eternata? Nel suo sguardo sorgono immagini come grida nel tempo e che al tempo appartengono, volti come ossessioni che si inseguono e accarezzano la materia con forza e delicatezza, cercando di mettere a tacere ciò che brucia e si scuote in fondo all’anima. Sono crepe, squarci rubati e forgiati nella loro purezza in una sorta di spazio ideale. Ne sente l’urgenza Alessandro La Motta, il richiamo a una militanza contro l’oblio e il rischio della deriva. È come se per l’artista qualcosa fosse andato perduto, disperso perfino nel proprio riflesso: la fame d’eterno, la potenza dell’essere, la ferita assoluta della bellezza, e per questo fosse necessario rievocarle, ora proprio ora, uguali e distinte, fondatrici di antiche trame attualissime. Sembra muoverlo una segreta hybris, che non conosce misura e non teme punizione alcuna.
Sarà per questo che sorgono come fenici, ma non dalle proprie ceneri perché non se ne sono mai andati veramente, i volti di Afrodite, Ulisse, Demetra, Efesto, Poseidone… lacerti strappati al fuoco e al vento, alla terra e all’acqua, assenza di corpi colmati dalla presenza di sguardi e labbra in attesa di nuove parole da pronunciare. Frammenti evocatori d’immagini compiute, fissati nella loro stessa eternità. Forme che attendono, sospese. E l’artista le nomina. Una a una.
«Nominare - aveva scritto Heidegger - è un dire (sagen), cioè un mostrare (zeigen). Nominare è mostrare aprendo, svelando […], affinché il chiamato venga salvaguardato nella sua lontananza […]. Perché il dire del poeta è preso in questa dimensione in cui occorre lasciar apparire (velando-svelando)…». Torna Omero e torna Dante e i poeti, gli scrittori, gli artisti prima e dopo di loro. S’inserisce qui allora la tensione che muove il gesto, lo spirito dell’artista, in questo movimento che è svelamento e apparizione insieme e per farlo Alessandro scava, come fosse un archeologo. La sua diventa una ricerca inesausta tra le stratificazioni, i depositi geologici che conosce solo l’arte. Lo spinge quello spirito sopravvissuto e mai davvero appagato che custodisce in ogni eidos e lo costringe a ricominciare ogni volta, come fosse la prima. Lo assedia l’anima, che lo vede nascere riminese, di fuoco e passione, illuminata dal calore della terra delle sue radici familiari, la Sicilia. Scava allora l’artista per esaltare ciò che appare dimenticato e renderlo manifesto nella materia, nello splendore ferito e incompiuto come se dovesse sempre sfidare ciò che è inafferrabile, lasciando scorgere, intravedere tra le pieghe del colore, quello che non si può del tutto rivelare. La Motta lo fa recuperando le radici profonde che appartengono alle origini, quelle mediterranee, echi che soffiano con il vento nelle vele gravide di memorie, leggende e che profumano d’antico, e di gelsomino. Si scopre poeta quando cerca la parola esatta da scolpire come fosse pietra tra le pieghe del suo sentire. E ai poeti guarda, s’ispira, interpreta. Lascia che le parole scorrano anche nelle sue opere e se ne approprino, versi inabissati nel mito o che sente più vicini e vivi, da incidere nelle trame di una tela, o nella materia che percepisce propria, scoprendo una pienezza di senso laddove esisteva solo il vuoto. Con loro intesse un dialogo fatto di rimandi, ispirazioni, tensioni.
«L’armonia del cosmo è effetto di tensioni contrastanti, come quella dell’arco e della lira», diceva Eraclito. A questa armonia guarda in fondo La Motta, cercando di restituirne la compiutezza, saccheggiandone l’istinto, avvertendo l’inquietudine nel momento in cui ne coglie le inesauribili sfaccettature. Si svela così una presenza, colma d’assenza. «Forse l’assenza è l’opera d’arte», aveva scritto Pierre Fédida, guardando all’immagine che si fa respiro per l’altro, aria e vuoto… In questi volti antichi, quasi nostalgici eppure modernissimi, che l’artista porta alla luce estraendoli dal baratro delle proprie inquietudini, si scopre dunque la ferita, la mancanza, lo sguardo vuoto quasi scarnificato degli dei, colmo della nostra essenza. L’illusione di bastare a se stessi della nostra stordente quotidianità, è come se venisse frantumata di fronte al richiamo di eroici bagliori, e di tremori che appartengono alla radice ancestrale del nostro essere, una perfetta incompiutezza che rammenta come l’ultima parola non sia ancora stata scritta.
Nel suo scuotere la materia dalla polvere di un passato glorioso ma già vissuto, La Motta ne sfida e allo stesso tempo ne recupera la sacralità. L’aura che rende quelle opere così distanti e inavvicinabili, l’alterità che potrebbe a tratti incutere timore, viene dall’artista afferrata e plasmata nel mito che attraversa con la determinazione e la sfrontatezza di chi stia compiendo un viaggio esaltante e misterioso. La meta? La bellezza. Quella che rifugge dalle categorie estetizzanti e posa, dove posano gli dei.
«Bellezza, portami qui, nel cuore profondo dell’esistenza, dove dolore e gioia si mescolano nel liquore sacro della vita…» ha scritto il poeta Davide Rondoni.
La bellezza spalanca allora voragini, vertigini che trafiggono l’essere umano e lo rivelano a se stesso e a ciò che lo eccede. E la ricerca di La Motta ne ferma le apparizioni, l’istante che si perpetua inesauribile, quasi si potesse sigillare nel tremito della voce e nel calore che plasma la forma, ogni forma, come fosse creta sopravvissuta agli affanni del tempo. Il suo viaggio è quello che lo vede ancorarsi al mito come ultima obbedienza all’arte per un destino di bellezza che possa ricominciare nel paradosso del fare e del disfare continuamente, nel frammento nostalgia del tutto e per scoprire, noi, quale sguardo, quale canto, quale mito, poter ancora abitare.
Roberta Tosi