“In carcere abbiamo 160 persone in media. Tutte cercano di riparare il male commesso, ma nessuno ci riuscirà mai, perché, come diceva Agnese prima, ciò che rotto e rotto”. La direttrice del carcere di Rimini, Palma Mercurio, è intervenuta al cinema Tiberio di Rimini all’incontro ‘Vita e giustizia: sentieri di riparazione’, con Agnese, che Mercurio cita, figlia di Aldo Moro, e Franco Bonisoli, protagonista della lotta armata degli anni Settanta, partecipò al sequestro dello statista.
“Tutte le attività che si fanno dentro, tutto il lavoro del nostro staff, delle psicologhe, è volto a tirare fuori e sostenere la parte positiva che ognuno di loro ha, a fargliela vedere e riconoscere. Perché di fatto la sentenza, gli atti giudiziari, le carte scritte, mostrano loro solo laparte negativa”. E, come diceva don Oreste Benzi, “l’uomo non è il suo sbaglio”. “La parte negativa è un momento, un frammento, un pezzettino, più o meno lungo, anche se può essere durato tanti anni”, spiega Mercurio.
Quello di Rimini, aggiunge EMrcurio è un carcere di media sicurezza, con detenuti che non hanno pene superiori ai cinque anni, “per reati abbastanza comuni. Però sono tutte storie”, sottolinea. “Chi deve essere riparato in carcere”, dice proprio riparato, “è prima di tutto una persona a pezzi a causa delle esperienze di vita precedenti. Spesso si tratta di bambini che non hanno avuto buon esempio in famiglia, con la società fuori che non è riuscita a fare da cerniera, a riparare questa questa condizione. Quindi siamo chiamati a farlo tutti noi in carcere”.
Spesso è in carcere, sottolinea Mercurio, “che per la prima volta la persona gode di un’equipe che lo aiuta nel lavoro di recupero”. Sono persone impaurite dalla possibilità di uscire, fa notare Mercurio, “perché hanno ancora addosso un'etichetta: il ladro, il tossico, l'estorsore, rapinatore, eccetera”. E invece, la sfida, è che “quando escono devono essere uomini”.
Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria “da sola non è capace, non è in grado di fare questa cosa". Perché, visto che in fondo sarebbe il suo compito? "Resta quel pianeta chiuso solo in se stesso e non comunica col territorio che abita. Così non serve a nulla”. Ogni carcere è fisicamente in una realtà particolare, in un comune, in una storia, in una regione, “e deve far entrare il più possibile la città dentro perché la funzione di ricucitura, di riparazione dell’anima è una funzione che ha necessità di tutto il territorio a cooperare”.
La scelta della giustizia riparativa, “per chi si trova nel nostro carcere è una scelta del tutto spontanea, e non porta a nessuno sconto di pena. Le persone che hanno aderito a questi percorsi con esperti nella mediazione sono davvero grate, perché sentono di aver visto una parte di sé dalla quale ricominciare. Come nuove, possono donare qualcosa agli altri, che possono essere utili al tessuto sociale. Non sono più solo solo definite da quel reato, da quell’articolo, di giornale, da quella sentenza”.
Palma Mercurio ha una storia particolare, “legata al carcere sin dalla mia infanzia”, spiega, perché il suo papà era comandante della polizia penitenziaria e la famiglia lo ha seguito “prima in Sicilia, poi al nord”, dal 1955 al 1995: quarant’anni. “Io faccio questo lavoro perché me lo ha chiesto lui”. La sua carriera è iniziata nel 1997, ventisei anni fa.
“Ho incontrato persone con reati comuni che si sentivano in colpa per avere ottenuto una misura alternativa, perché, come dice Agnese, il reato anche un assassinio, può essere frutto di un pensiero che attraversa la testa in un momento, poi tu sconti la tua pena, magari sei addirittura talmente positivo da avere avuto diritto alla misura alternativa, ma ti senti maledettamente in colpa”. Da qui, spiega la direttrice, molti suicidi. Solo pochi giorni fa il caso di un deteuto semilibero a Livorno. “Perché si suicida un detenuto semilibero, una persona che ha un piede fuori, anzi tutti e due perché è una misura alternativa? Vuol dire che c'è dentro la sua anima qualcosa che non funziona. C'è un senso di colpa che niente può colmare”.
Mercurio racconta un’esperienza personale. “L’uomo, semi libero, aveva trovato lavoro, risarcito il figlio della vittima, a cui aveva comprato un appartamento, ma non si dava pace. E’ riuscito a farlo solo dopo aver inziato un percorso di giustizia riparativa con un mediatore esperto e ne è venuto fuori. Il figlio della vittima ora lo chiama zio”.
Ancora una storia personale, Mercurio torna a citare la sua famiglia, suo padre, adesso 89enne. "Un uomo dall'umanità pazzesca. Ha gestito carceri in cui si trovavano anche detenuti pericolosi. Non posso dire in quale, un gruppo di detenuti aveva costruito un tunnel per evadere, eravamo negli anni Settanta, nel 1975. Scavando sono arrivati al confine con il cortile di casa nostra. Lì si sono fermati perché hanno sentito noi bambini parlare, soprattutto mio fratello che giocava col pallone contro quel muro. Non se la sono sentiti di andare avanti”.
E’ stato uno dei detenuti, successivamente a raccontare tutto. “Sono passati più di quarant’anni, quella persona adesso fa anche il volontario in istituti del centro Italia”. E’ dalla telefonata ricevuta da una collega che Mercurio ha scoperto come tra il padre e questa persona sia nata un’amicizia. “Non finiscono mai di raccontarsi la durezza di quei giorni, ma anche la bellezza di avere questo rapporto adesso. Vanno a cena, si trovano d’estate. Mio papà lo sente come un regalo per lui, questa amicizia sincera di una persona che, come dice, gli era stata affidata dallo Stato per custodirla. Non finisce mai di raccontarmi tutte le cose positive che ha imparato dai suoi amici che erano in carcere, di come bisogna rispettarli. Questo per me è giustizia riparativa”.
Far tornare in vita “è impossibile, come diceva Agnese Moro, a cui tutti dobbiamo inchinarci per la storia che ha avuto. Si possono, però, e si devono ricostruire relazioni vitali, che ci facciano andare avanti. Vogliamo che la gente viva, che chi è in carcere nel momento peggiore della sua vita, scopra dei ganci per poter ricominciare. Forte della sua storia, per continuare a fare del bene agli altri, ad essere di esempio”. Nel carcere di Rimini “abbiamo 160 persone che aspettano questo, che non sono più quel titolo di giornale che li ha portati dentro. Sono altre persone con un’altra storia. Nuove”.
Filomena Armentano