L’incontro tra Franco Bonisoli e Agnese Moro risale alla prima parte del 2010. Lui va a trovarla a casa accompagnato dai mediatori ed è diverso da come lei se lo aspetta. “Mi aspettavo un guerriero, un uomo pericoloso, indifferente al nostro dolore. Come li avevo visti quando andavo a testimoniare. Immobile, stereotipato, mostruoso, quelo che mi aspettavo era in realtà un fantasma”, racconta Agnese al teatro Tiberio di Rimini,insieme all'ex brigatista Franco Bonisoli, in occasione dell’incontro ‘Vita e giustizia: sentieri di riparazione’ nel febbraio 2024. “E invece... vi siete resi conto anche voi di che persona è”, dice al pubblico. “Piena di umanità, con un percorso coraggioso e doloroso. Il che non toglie niente di quello che lui è stato allora. Quello di trent’anni prima è stato una cosa, quello di adesso è un’altra. La prima cosa che mi ha insegnato questo incontro è che l’umanità non va perduta. Anche se hai fatto cose tremende, questa umanità può tornare”. Agnese è figlia di Aldo Moro, Franco partecipò al sequetro di suo padre.
Per Agnese, il percorso di giustizia riparativa ha corrisposto all’“incontro con il loro dolore”. E' stato “molto importante perchè per me il dolore era solo mio: sono io che ho perso qualcuno. Scoprire il suo dolore ha rimesso in discussione tutto. Questa è una delle possibilità della giustizia riparativa”.
Sono 14 anni, racconta Agnese, “che rifletto sulla parola ‘riparativa’. Resta piena di mistero. Va presa molto sul serio, bisogna cercare di capirla senza semplificazioni”. Agnese richiama l’esempio dell’arte giapponese di riparare impreziosendo con l’oro ciò che si è rotto. “Molto suggestiva come immagine, si usa spesso per descrivere la giustizia riparativa, però non è così”. Perché “mio padre non si può riparare. Non tornerà mai. Ogni atto di violenza, piccolo o grande, lascia dietro di sé l’irreparabile”.
L’irreparabile, spiega Agnese “lascia delle scorie che io chiamo radiattive perché continuano a provocare danni nel tempo finché non arriva qualcuno a trattarle adeguatamente, a disinnescarle”.
Agnese non vuole, sotolinea, sottovalutare la giustizia retributiva,“fermare le persone che hanno sbagliato, giudicarle in modo giusto e fare delle sentenze”. Tuttavia, la tentazione che a volte può capitare a una vittima di pensare che dopo la condanna dell’assassino si sentirà meglio “è un’illusione” perché l’irreparabile “rimane lì, non se ne occupa nessuno. Il tempo non fa niente, accoglie e ingigantisce le scorie. Genera cose terribili come l’immobilità: il fatto del passato non è mai nel passato, è continuamente presente”.
Per loro natura, le scorie radioattive non sono solo di chi “le ha prese, ma anche di chi le ha date. L’irreparabile colpisce in egual misura, anche se in maniera diversa, chi ha agito la violenza e chi l’ha subita. Ognuno dei due si deve confrontare con quello che l’irreparabile gli ha lasciato”. Il che genera uno stato di immobilità. Per lunghi anni “per me mio padre veniva rapito ogni giorno, moriva di nuovo ogni giorno, come venivano rapite le persone care della sua scorta, e nessuno li aiutava”. E con l’immobilità “rimangono vivi tutti i sentimenti che si generano dal fatto, sentimenti che prima non avevi. Odio, rancore, disgusto, orrore, senso di colpa… Sentimenti che si rafforzano nel tempo”. Sentimenti che "senti il dovere di non mostare per non contaminare chi hai intorno, sentimenti che vuoi che muoiano con te. Stati zitto cercando di proteggere. L’ho fatto con i miei figli. Avevo il terrore che loro potessero pensare che se fai una vita onesta e per bene puoi essere colpito”, come era successo al nonno che non hanno conosciuto. Il silenzio, come le scorie radioative non è inerte. “Urla".
Accanto a immobilità e silenzio, si fa avati anche un senso di “ingombro: sei pieno di fantasmi, dei fantasmi di loro (guarda Franco, ndr), i fantasmi di chi non ha aiutato, di quella ragazza di 25 anni, che ero io all’epoca e che non c'è più. E tutto questo appesantisce, toglie spazio per fare altro. Io ho fatto una vita normalissima, un milione di cose, ma il mio mondo interiore è stato esattamente questo. Un mondo interiore che per motivi diversi è esattamente lo stesso loro (riguarda Franco, ndr)”.
Il sangue versato non lascia mai il tempo che trova. "Per me prima il sangue era quello delle mestruazioni, un sangue che parla di vita". Poi è diventato "il sangue che ha toccato mio padre, in tanti modi, il sangue degli altri che sono morti. Nemmeno questo sangue è inerte. Invade tutto. Quello che è stata la vita di tuo padre, la tua vita quando lui c'era. Anche quando guardavo la foto più tenera e carina, lui che mi tiene in braccio da piccola, per me era piena di spade. Quindi anche il passato buono, quello che tu hai vissuto con la persona che amavi, è lo stesso di prima ma è contaminato da quello che è successo".
L’ultima scoria radioattiva che come le altre "è la stessa per noi e per loro, è la disumanizzazione, come raccontava Franco. L'altro che lui colpiva per lui era diventato un simbolo, una funzione. Lui mentre colpiva è diventato un militante, una cosa. Anch'io sono diventata una cosa: una vittima. In quanto vittima dovrei rispettare precise caratteristiche, devo comportarmi in un certo modo e solo in quel modo posso essere. E loro (gli attentatori,ndr) sono i cattivi per sempre. Purtroppo la nostra comunità ci guarda ancora tanto in questo modo".
E quindi la giustizia riparativa?
"Non fa niente per l'irreparabile. Mio padre non me lo ridà”. Però “può agire sulle scorie radioattive. Trattarle, disarmarle, renderle non più padrone delle persone, può sgombrare i fantasmi, togliere il sangue, ridare parole, restituire umanità”. Per Agnese è un regalo “che per me loro sono amici. Sono i miei amici difficili. Non sono i cattivi per sempre. Hanno dei nomi, sono delle persone. Io per loro non sono la vittima, un pezzo di storia. Io sono Agnese. Poter essere umani, avere il permesso di essere semplicemente umani è una bellissima cosa”.
La giustizia riparativa fa in modo “che qualcuno ci venga a cercare. Siamo stati cercati uno per uno. Qualcuno ci ha detto: guarda, forse c'è la possibilità di vivere in un altro modo. E per me è stata una novità molto grande perché anche se all'inizio ho detto di no, ho subito capito che a qualcuno interessabva del mio dolore. In 31 anni nessuno mi aveva chiesto come stessi e invece Guido era venuto proprio per questo. Ho capito che lui quel dolore che manteneva vive le scorie, avrebbe potuto ascoltarlo, guardarlo, toccarlo e non sarebbe morto. E mi sono convinta che loro (gli amici difficili, ndr) non sarebbero morti se io avessi detto delle parole su quello che provavo”.
La giustizia riparativa è quindi, “in luogo in cui tu puoi incontrare l’altro, lo puoi guardare, puoi sentire delle parole, puoi dire delle parole perché è un luogo sicuro, perché è un luogo libero, che è la cosa più importante. Io mi sto ancora domandando: perché sono venuti? Tutti loro hanno scontato la loro pena e non mi devono niente, non devono niente a voi, non devono niente a nessuno. E allora perché vieni a fare una cosa dolorosa? Perché in fondo io sono un rimprovero vivente. Uno guarda la mia faccia e pensa: caspita cosa ho combinato. E io perché vado a trovare quelle persone che sono stati i fantasmi di tutta la mia vita? Ci vado perché ci devo andare, perché la cosa normale è che io ci vada. La cosa anormale è che io seguiti a stare a casa mia a covare rancore nei loro confronti, a rigirarmi dentro le mie ferite. Anche se invece tutti ci convincono che è questa la cosa normale”.
L'esperienza di Agnese Moro è che “dentro di noi cè qualcosa, che no so chiamare, che ci costringe a cercare vita. E la vita sta nel fatto che se tu mi hai fatto un torto io ti voglio guadare, voglio stare con te, ti voglio rimproverare, ti voglio dire quello che mi hai tolto, e voglio ascoltare le parole che tu ritieni, anche se mi fanno male. Io voglio, ho bisogno di quest’incontro perché senza quelle scorie radioative non si fermeranno mai e il mio mondo resterà un mondo immobile, chiuso, silenzioso”.
E allora accogliendo l'incontro può accadere che “io mi sono ripresa il passato. Adesso, quando guardo le foto di mio padre che mi teneva in braccio da bambina mi dispiace, perché avrei voluto che avesse potuto tenere anche i miei figli, però quel sangue non c'è, sono pulite. Quei 25 anni sono tornati ad essere i mei e i suoi. non c’è il dopo. Mio papà mi manca, mi mancherà sempre, ma il dolore che provo è un dolore disarmato, un dolore che non farà male più a nessuno, che non mi impedirà di pensare che posso anche vivere”.
Come tornare a respirare. “Potrà sembrare stupido, ma ora posso fare un respiro completo. Come puoi fare un repiro completo quando una persona che amavi non respirerà più? O nel caso loro: come puoi fare un respiro completo quando una persona che tu hai colpito non respirerà più? Fare un respiro completo allora significa capire che loro non possono ritornare, ma io ci sono, io vivo e posso vivere davvero buttando via tutti questi pesi senza scordare nulla, senza abbandonare nullla, senza semplificare nulla”.
Perché “insieme abbiamo guardato quell’inferno, insieme abbiamo guardato quel’orrore. Lo portiamo insieme a fa parte della vita. E il male non è una forza iperuranica che domina il mondo. Il male è solo un fatto di uomini. Siamo noi il male. Scegliamo una cosa, ma possiamo sceglierne un’altra. Il male possiamo non sceglierlo. E i sentimenti, allora, sono anch’essi disarmati. Possiamo vivere con degli amici meravigliosi. Alla mia famiglia posso dire delle parole, condividere quelli che sono stati i miei sentimenti, di come ho vissuto quei 55 giorni, di cosa hanno significato per me. Ho avuto la capacità di dirgliele quelle parole. Loro non sono morti per averle ascoltate. Possiamo vivere insieme”.
Filomena Armentano