Franco Bonisoli ha aderito alla lotta armata in un periodo in cui c’era “l’idea di una Resistenza non compiuta”, il “timore di un ritorno del fascismo, tra tentativi di colpi di stato, bombe sui treni, le bombe a piazza Fontana”. Lo ha raccontato anche a Rimini, in febbraio in occasione dell'incontro 'Vita e giustizia: sentieri di riparazione' al cinema Tiberio, insieme ad Agnese Moro, figlia di Aldo, l'uomo che Francon contribuì a rapire. In quel clima, “c’era una parte consistente di persone che pensava di trasformare la società non attraverso forme democratiche, ma attraverso una rivoluzione”, l’uso della violenza quindi era ritenuto “possibile per affermare le proprie idee. Purtroppo ho partecipato attivamente”.
Franco entra nelle Brigate Rosse. Abbraccia una vita clandestina. Abbandona la famiglia, la comunità, la vita “normale”. Abbraccia una “logica di guerra, che disumanizza… come i crociati che per conquistare il Santo Sepolcro giustificavano la 'mietitura'”. Lo ha fatto “per fare quello che secondo me era il mio dovere: per costruire una società più giusta l’unica strada era distruggere lo stato”.
L’addestramento lo inizia a 23 anni. In carcere arriva dopo soli quattro dall’adesione alle Br. “Un’ipotesi che avevo considerato, assieme all’altra: morire sul campo di battaglia”. Da qui inizia una serie di processi, Genova, Torino, Milano, Roma, cui seguono condanne e “giustizia retributiva (quella classica, che prevede una punizione legale adeguata al reato, ndr) a tutto spiano”. Riceve quattro ergastoli, per 105 anni di pena. Ma l’effetto del carcere duro “è stato quello di renderci ancora più duri. L’unico modo per resistere a questa pressione era esercitare violenza. A Nuoro avevamo la pentrite (un esplosivo, ndr) e lo abbiamo usato in una rivolta”. Il carcere duro “non solo non cambiava, ma aveva permesso l’aggregazione molto forte tra noi che venivamo dalla lotta armata e le grosse bande della criminalità comune”. Le cose “sono andate avanti così per anni”.
Quella che Bonisoli chiama la sua “fortuna”, è stata una crisi che a un certo punto lo ha fatto dubitare della lotta armata. “E’ stata durissima. Ho iniziato sentire tutto il peso di quello che avevo fatto. Perché finché tu sposi la logica di guerra, tutto è giustificato. Ma quando quella logica viene meno inizi a vedere che c’erano delle persone dietro le divise, dietro i ruoli, dietro i politici, dietro i magistrati”. E poi, “non solo avevo rovinato tutta la mia mia vita, ma anche la mia famiglia, che aveva sofferto e le famiglie delle persone che noi avevamo ritenute nemiche”.
All’epoca non c’erano grandi possibilità. “Diventare collaboratore di giustizia significava tradire. Tradire significava diventare uno da uccidere”. Inizia uno sciopero della fame insieme a un altro brigatista che viveva lo stesso suo stato d’animo. Sul giornale leggono del convegno dei cappellani del 1983, con il cardinale Martini. “Leggemmo parole nuove, a cui non eravamo abituati. Si parlava di dignità umana delle persone detenute”. Cercano il cappellano del loro carcere, don Salvatore Bussu, che aveva tentato di avvicinarli, “ma noi avevamo semrpe evitato per ragioni ideologiche”. Gli chiesero maggiori informazioni sul convegno dei cappellani e lo informarono del fatto che avevano iniziato lo sciopero della fame. “Ci stupì perché si preoccupò visibilmente, umanamente. Io mi aspettavo invece che ci snobbasse per il fatto che noi lo avevamo evitato per anni”.
Dopo venti giorni di digiuno accade un fatto. Ricevono la visita di Marco Pannella. Don Bussu aveva informato vescovo e giornali che non avrebbe celebrato la messa di Natale in un carcere dove i “suoi fratelli stavano morendo”. Entro Capodanno le delegazioni di tutti i partiti avevano visitato il carcere di Nuoro. Il ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli, decide di rivedere la legge 90, il 41 bis. Gli ex brigatisti sospendono lo sciopero della fame. “L’ambiente del carcere cominciò a cambiare. Su di me questo ebbe un effetto deflagrante. Le condanne c’erano, le crisi c’erano, ma era possibile una risalita”. Nel 1986 fu varata la legge Gozzini. L’anno successivo la legge per la dissociazione dal terrorismo. “Permetteva di diventare collaboratori di giustizia senza dover denunciare i tuoi compagni, dichiarando il rifiuto della violenza”.
Ma quale fu il passaggio, fondamentale, che portò alla crisi di Franco? Bisogna fare un passo indietro e tornare sul continente. Al carcere Le Vallette di Torino, “dove presi il quarto ergastolo”. “C’era una forte pressione, c’eravamo noi delle Brigate Rosse, c’erano quelli di Prima Linea. Il direttore chiese di fare una commissione per individuare le problematiche e riportargliele. “Vediamo se riesco a risolverle", ci disse. Questo mi spiazzò. Mi aveva spostato il tavolo di gioco”. Furono favoriti i contatti con la componente femminile, i colloqui con l’esterno, anche senza vetri divisori. “Il nostro livello di belligeranza crollò. La possibilità di contatto con l’esterno ci aveva fatto capire che le nostre ideologie erano ferme e che il mondo invece stava cambiando. Consapevolezza che però chi non aveva girato tanti carceri come me, non aveva potuto sviluppare”.
In carcere Franco si sposa, trova lavoro, mette in campo una serie di attività, aiutato dalla comunità dei volontari. Esce, ritrova lavoro, inizia a fare volontariato a sua volta. “Ho cercato di restituire quello che avevo ricevuto, lavorando con ragazzi difficili. La mia vita è tornata normale”. Ma restava un problema di coscienza. E un peso nel cuore.
“Dal punto di vista retributivo avevo pagato tutto. Ero a posto con le leggi dello Stato. Ma restava una domanda: io ho pagato cosa e a chi?”. Da qui è nato il “desiderio di un dialogo con le persone. Riparare non era possibile, ma questo sì, senza voler fare forzature”.
Il tempo ha favorito il desiderio di Franco. Padre Guido Bertagna è uno dei mediatori che hanno portato all’incontro di Franco con Agnese Moro, la figlia di Aldo Moro, che Bonisoli contribuì a rapire. “Un incontro che non avrei mai immaginato potesse arrivare a quello che è ora: un rapporto di amicizia fra noi”. Pensava a un incontro in cui avrebbe potuto chiedere scusa, prendersi un insulto, alla fine stringersi la mano e poi ognuno per conto suo. E per ottenere proprio questo a un certo punto chiese ai mediatori presenti di lasciarli un attimo soli, lui e Agnese. Affinché lei si sentisse più libera nei suoi confronti, libera di dirgli tutto, qualsiasi cosa. Così nacque un'amicizia. “L’esperienza che abbiamo fatto è stata quella di uno sguardo alla pari, favorito dai mediatori, che hanno avuto un ruolo di equiprossimità tra di noi”.
Rispetto alla lotta armata, “io mi ritengo uno sconfitto da quell’esperienza - spiega Franco - soprattutto sul piano personale, non tanto quello politico militare. Direte: perché sono stato arrestato? Non mi interessa questo. La verità è che senza accorgermene, pensando di costruire un mondo più giusto attraverso l’uso della violenza, ho visto che la violenza ti trasforma e ti porta a negare, passo dopo passo, quelli che erano gli ideali per cui stavi combattendo. Il paradosso è proprio questo: non si può costruire la pace facendo la guerra. Il mondo di pace va costruito facendo la pace e vivendo la pace”.
Filomena Armentano