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Rimini verso l'anno zero dei matrimoni religiosi

Lunedì, 12 Febbraio 2018

Secondo una ricerca del Censis dell’estate 2016, il 2031 sarà l’anno del completo azzeramento dei matrimoni religiosi. Non ci sarà più una coppia che si sposerà in chiesa. Viene in mente un verso del poeta inglese Thomas Stearn Eliot nei suoi Cori della Rocca: «E sembra che la Chiesa non sia desiderata Nelle campagne e nemmeno nei sobborghi; in città Solo per importanti matrimoni». A quasi cent’anni di distanza la realtà avrà dunque superato l’immagine usata dal poeta per descrivere il processo di secolarizzazione e la progressiva marginalità dell’esperienza ecclesiale nella vita di tutti i giorni.

Quella del Censis è una proiezione statistica, ottenuta applicando, anno dopo anno, il tasso di diminuzione dei matrimoni religiosi. È evidente che le proiezioni statistiche, basate sui numeri, non riescono a tener conto di due elementi che sono sempre in agguato, l’imprevisto e la libertà delle persone.

Tuttavia a leggere i dati sui matrimoni a Rimini, pubblicati dall’ufficio statistica del Comune, si ha l’impressione che quel movimento verso la progressiva scomparsa del matrimonio religioso abbia compiuto nella nostra realtà passi da gigante. Nel 2017, per esempio, su 362 matrimoni solo 130 sono stati celebrati davanti a un sacerdote. Tradotto in percentuale, solo il 36 per cento delle coppie ha scelto di fondare la propria convivenza sul sacramento del matrimonio. Nell’analisi del Censis si osservava che in Italia nel 2014 i matrimoni civili erano il 43%, ma nel nord e nel centro erano, rispettivamente il 55 e il 51 per cento. A Rimini in quell’anno erano già il 57 per cento, per diventare, solo tre anni dopo, il 64 per cento. Il sorpasso del rito civile su quello religioso nella nostra città è avvenuto nel 2011: 216 contro 213. In sei anni il processo ha subito un’accelerazione notevole. Sembra proprio che si stia marciando speditamente verso quell’anno zero ipotizzato dal Censis.

I numeri dell’ufficio statistica del Comune fotografano come sia cambiata la società locale negli ultimi 25 anni. E si capisce che il crollo dei matrimoni religiosi altro non è che un aspetto del più generale calo dei matrimoni, dovuto sia a cambiamenti culturali che all’incertezza sociale, fenomeni che portano a non scommettere sul futuro. Se nel 1992 se ne celebravano 705 all’anno (171 civili e 534 religiosi), nel 2017 le nozze sono quasi dimezzate (362, con la proporzione fra civili e religiose che abbiamo visto). Non sappiamo invece quale sia la progressione statistica delle coppie conviventi, le cosiddette unioni di fatto: nel 2017 erano 2.365 pari al 3,5 per cento del totale delle famiglie.

Se nel 1992 tre matrimoni su quattro venivano celebrati in chiesa, non è perché in quel periodo non si vivesse già in una società secolarizzata. C’era invece un peso diverso della tradizione culturale in cui si era cresciuti. Magari non si frequentava abitualmente la chiesa, ma nel momento in cui si trattava di costruire una nuova famiglia, era quasi normale farlo all’interno della tradizione in cui si era cresciuti. A questa tradizione corrispondeva anche una trama di rapporti sociali (famigliari, amicali, di quartiere) più solidi rispetto all’individualismo e alla solitudine oggi dominanti. Quando sempre più rare coppie decidono di sposarsi, la Chiesa non è più cercata nemmeno per i matrimoni. Il riferimento alla tradizione non ha la forza di determinare una scelta, anche perché nel proprio orizzonte esistenziale e sociale quella tradizione (intesa come qualcosa di vivo e attuale) è difficilmente incontrabile. Per la comunità ecclesiale si aprono seri e radicali interrogativi, che lasciamo a chi detiene autorità e competenza.

Qui vogliamo sottolineare un altro aspetto di questo crollo dei matrimoni: il cambiamento della composizione sociale. A Rimini le famiglie di tre o più componenti rappresentano solo il 36 per cento del totale. Il resto è composto da famiglie – giuridicamente si chiamano comunque così – di uno o due componenti. In particolare, i nuclei unipersonali sono il 36 per cento, quelli di due persone il 27 per cento. Quindi la famiglia intesa come convivenza, tendenzialmente stabile, di genitori e figli è un fenomeno assolutamente minoritario nel panorama sociale attuale. Prevalgono le persone sole o al massimo le convivenze di due persone. Se a ciò si aggiunge che gli anziani soli (over65) sono circa diecimila, che sono quasi ottomila i figli dai 25 ai 44 anni che ancora vivono con i genitori, che l’indice di vecchiaia negli ultimi venticinque anni è passato da 138,36 a 179,83, si capisce quali problemi una composizione sociale di questo tipo ponga a chi deve amministrare una città o governare l’intero Paese. Si avverte in modo evidente la carenza storica di concrete politiche a sostegno della famiglia.


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