(Rimini) Oggi alle 17,30 al cinema Fulgor Sergio Zavoli presenta la sua nuova raccolta di poesie ‘La strategia dell’ombra’. L'introduzione di Rosita Copioli
L’ombra è una realtà centrale, in tutti i libri di Zavoli. Lo era già - in una meravigliosa e metamorfica declinazione di ogni suo senso e metafora - ne La parte in ombra (Mondadori, 2009), che avrebbe potuto chiamarsi anche Il mestiere dell’ombra). Ma in questo ultimo, bellissimo La strategia dell’ombra (sesta raccolta di poesia con Mondadori e quarta nella collana dello «Specchio», pp. 100, € 18), ne diventa protagonista assoluta.
Aveva scritto ne L’orlo delle cose (Mondadori, 2004): «Non m’imprimo su nulla, / vivo come di lato, / all’ombra del mio corpo; / se mi scosto lo perdo, non so più dove sono. / Io e me, che fatica». Perché il rischio dell’ombra è quello di esserne assorbiti, di perdersi definitivamente. Ne L’orlo delle cose l’ombra aveva anche la cifra dell’attenzione, del rispetto, della discrezione, della prudenza nel giudicare, dello sguardo cauto, che avevano improntato il tono di Un cauto guardare (fu il titolo del primo libro di poesia, Mondadori, 1995). La sobrietà dello stile è una virtù imparata da un retaggio antico, da un padre e da una madre che Zavoli ha continuato a indicare come il fulcro della propria eredità morale. A loro appartiene l’insegnamento di una eleganza e di un rispetto memori della tradizione di civiltà sobria che faceva parte della nostra cultura salda al Vangelo: «A dirlo fu mia madre quando nacqui, / tienti al poco che serve, non scialare, / e ancora cerco un alito di me annidato / a quella pace chiara, taciturna. // Torna a essermi madre, libera la mia voce / Prima che a divorarla sia il silenzio, / ho rispettato quel lontano patto, / come allora sto all’orlo delle cose.».
All’ombra appartiene dunque il velluto dell’oscurità, la protezione, il manto notturno materno che era quello di Iside e di Maria. Sebbene l’ombra possa essere ben altro. Tenebra incombente, totale estraneità, generatrice di mostri, minaccia perenne: Male. Nella dialettica del «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», che ha improntato il vangelo laico assunto da Montale, il retaggio antico della opposizione al male, la direzione e la scelta sono diventati in Zavoli il nucleo costante dell’investigazione e della domanda, di volta in volta riproposte per capire il senso di ciò che siamo, il nostro destino. Che cosa è la parte di ombra con cui conviviamo? Come ne domiamo la terribilità? Perché l’ombra si allontana ma ci precede, legata all’eco o sembianza-alterità, come continua a chiedere La strategia dell’ombra?
Nel suo estremo Elogio dell’ombra (1969), Jorge Luis Borges, alla ricerca dell’altro/se stesso, la riconosceva come origine: «Forse la sorgente è in me. / Forse dalla mia ombra / sorgono, fatali e illusori, i giorni». Qui Zavoli ne è vicino, ma le domande restano inalterate. Continuando a ripeterle, Zavoli coinvolge anche l’amico Federico Fellini sugli interrogativi cruciali che riguardano il nostro essere «ombra». Come negli altri libri, l’ombra fa parte del vissuto: gronda di storia, delle testimonianze atroci del secolo, di teneri ricordi familiari, di memorie spinose o tragiche, delle esperienze di lavoro. Alle prime dieci poesie che percorrono i capisaldi del libro, ne seguono altrettante, memorabili, di ricordi della guerra a Rimini, che non solo qui ha determinato i mutamenti più epocali; poi due sull’entità della pace di un affidamento paterno che è simbolo, come se il vissuto nella guerra dei padri possa venire placato soltanto dalle mani di padri e madri che stringono il tempo, nei passi verso casa; quindi scorrono volti e luoghi, le persone amate, le prove, le rinunce, le impossibili utopie, le domande estreme - come quelle a Federico Fellini -, le hybris di scienza e potere, le invocazioni per la pace e alla pietà: testi bellissimi come quello sul bambino spiaggiato, che fra i tanti, il mare dondola e consegna. In congedo la speranza delle lucciole nuziali, «il simbolo che dica / vincerà la vita».
Ma lo spessore, la profondità e oscurità addensati nella poesia per l’ombra contenuta nel vissuto, sono stati illimpiditi da una luce che tesse una trama superiore. Da un lato si tratta di un’alta qualità stilistica, sintesi e culmine in continuità di un passato già espresso intensamente, con «forza e grazia, ironia e gravità». Lo aveva previsto Carlo Bo: lunga sarebbe stata la maturità della sua vocazione poetica, messa in risalto dalla nitida coerenza tra pensiero e linguaggio. Il «padrone di tante voci umane – maestro del “mestiere di chiedere”», senza «alzare i toni» la trae anche dalla propria lealtà di fronte alla sfida dell’«infinito bivio», che sempre gli suscita un «sacro allarme». Zavoli traduce l’incessante riflessione sull’essere e sulla storia in rigore di stile, sostiene il prestigioso impegno comunicativo e il civismo con elevata immaginazione e coscienza del reale. Unisce ad essi nella parte “in ombra” della rivelazione poetica «una sfida consapevole e libera, mostrandosi con il suo volto tutto rischiarato, in una luce ancor più dichiarata e pura».
Dall’altro si tratta del nuovo riferimento della superiore tessitura di luce, che si è manifestata. Gli occhi si sono distaccati, e tornano a posarsi senza peso su tutto ciò che è stato ed è: la “selva oscura” da cui Zavoli è partito nel dopoguerra per il suo esilio laborioso, il qui e ora, dal cratere dove ciò che conta non è solo cercare se stessi, ma vivere con la guida dell’amore: occhi simili a due farfalle che «dopo la battaglia, / si posino indifferenti sui vinti uccisi / e i vincitori addormentati».
Strategia dell’ombra-poesia è ora collocarsi nell’«ombra della luce vivente» secondo l’immagine di Ildegarda di Bingen: farsi riflesso per riflettere. È imitare - docilmente - l’inattingibile “equidistanza” di chi fa sorgere il sole sui malvagi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e gli ingiusti (Mt 5,43-5). Così operano le bianche farfalle effimere degli orti, che si confrontano con il marmo del Tempio e il chiarore della Luna.
Sarà giusto dire, per l’occasione, che tornando oggi nella sua Rimini, Sergio Zavoli compie un gesto simbolico. Rinnova al Fulgor il rito tra luce e ombra che è l’essenza del cinema da cui è stato avvinto proprio lì con Federico Fellini. Lo rievoca in una delle due poesie dedicate all’amico nell’inquietudine del nostro essere «ombra», ne La strategia dell’ombra:
«(a Federico e al Fulgor) Tutto accadeva altrove, e noi eravamo / avvinti dalle storie animate / da un fascio luminoso, / finché ci scendeva sugli occhi un telo nero / con la scritta the end, che detestavi, / quando alle tre del pomeriggio si an dava / a vedere un film d’amore, una vita ogni volta / lunga un’ora e mezzo.».
Rosita Copioli