Gambini parla di Renzi e non si stupisce della lettera di Gnassi e Vitali a Bersani
Non voglio sottovalutare l'impatto che hanno lo stile diretto ed aggressivo di Matteo Renzi, il richiamo alla rottamazione della vecchia politica, la forte volontà di discontinuità. Sono fattori decisivi nel delineare l'immagine sulla quale giocherà le proprie chances nelle primarie del PD e poi, eventualmente, nelle elezioni politiche.
Novità straordinarie. La rottura dell'antico rito della cooptazione sulla quale si regge da decenni, a destra, al centro ed a sinistra la politica italiana, cambierà comunque, d'ora in poi, i caratteri del confronto politico. Rappresenta un precedente dal quale sarà difficile prescindere.
Basta pensare a come appare stantia e polverosa, dopo Matteo Renzi, la narrazione della triste parabola di Angelino Alfano. Una modalità di successione, per giunta abortita, che semplicemente non sarà più neppure proponibile. Tuttavia sono convinto che ciò che alla fine deciderà del suo successo sia qualcos’altro.
I commenti che ho visto da parte di amici del centrodestra sono necessariamente influenzati da questi aspetti, ma giustamente colgono anche altri temi forse più decisivi.
E’ vero il sindaco di Firenze presenta un programma e punti di riferimento molto lontani dal linguaggio abituale del PD di Bersani. Tuttavia non sono sensibilità programmatiche mutuate dal centro destra, in realtà sono molto corrispondenti ai valori ed agli intenti fondativi originari del PD.
Il programma del Lingotto è facilmente riscontrabile e lì troverete il superamento della tradizione socialdemocratica, la valorizzazione del ruolo dell’impresa, la scelta meritocratica nella scuola e sul lavoro e perfino un nuovo discorso sulle tasse. Non è Renzi che ricicla idee di destra, il problema è che il PD di Bersani negli ultimi anni è tornato ad essere un partito socialdemocratico, per questo Matteo sembra un eretico.
Due temi, sopra gli altri, sono emblematici del riposizionamento del PD operato da Pierluigi Bersani. La centralità nella rappresentanza sociale assegnata alla classe operaia, il ruolo decisivo dello Stato e della spesa pubblica nell’indirizzo dell’economia. Intendiamoci ci sono mille sfumature, ma il cuore di un identità socialdemocratica “old style” si regge su questi due pilastri. Due pilastri che erano stati rottamati da Veltroni e che Renzi prova di nuovo ad attaccare.
Si può rappresentare i più deboli senza vivere nel mito salvifico della classe operaia? Si, il Partito Democratico americano, il partito sostenuto dai sindacati USA, lo fa da decenni.
Ci si può battere per un welfare moderno ed inclusivo senza disastrare le finanze pubbliche? Schroder in Germania lo ha fatto e lo ha chiamato non a caso “neue mitte”.
Si può usare il mercato per battere i privilegi e premiare il merito? Il nuovo labour di Blair ci è riuscito per diversi anni. Insomma Renzi sta a pieno titolo nel filone riformista della sinistra, che ha “revisionato” il pensiero socialdemocratico e incrociato l’anima “liberal” made in USA. Una cosa nuova per l’Italia.
E’ questa la ragione per cui la sua sfida intriga ed imbarazza tutti coloro che nel centro destra hanno un punto di vista riformista. Non credo ci vogliano fini politologi per affermare che dentro il PdL esistono ancora robuste componenti riformiste. Componenti che rischiano però di perdere il contatto con il paese reale.
Il tracollo elettorale descritto dai sondaggi è lo specchio del “disincanto” di quella parte di elettori che avevano creduto nella promessa della rivoluzione liberale e che si sono ritrovati con “er Batman” e i bikini della Minetti. Per i riformisti azzurri forse è tempo di battere un colpo.
La distanza con gli elettori disincantati è ancora più grande perché di mezzo c’è Monti e la sua agenda. Non è grande come tra gli elettori del PD, ma anche nell’elettorato potenziale del centro destra il consenso per Monti è consistente. E’ il consenso per l’Europa, per il prestigio riacquistato sulla scena internazionale, per il pragmatismo che punta a risolvere i problemi senza pregiudizi ideologici o ammiccamenti propagandistici, anche per la capacità di raccontare la verità e di richiedere i sacrifici necessari.
L’Agenda Monti, piaccia o non piaccia, sarà il benchmark della prossima campagna elettorale e forse qualcosa di più. Sarà un punto di riferimento per cambiare il costume nazionale. D’altra parte il professore non ne ha mai fatto mistero, è più ambizioso di quello che sembra, punta a cambiare la mentalità degli italiani e qualche risultato lo ha già raggiunto.
Matteo Renzi è il più montiano degli attuali protagonisti della politica italiana. Non solo per il fatto fondamentale che ha fatto propria, senza tanti infingimenti, l’Agenda Monti, ma anche perché, al di là di molte caratteristiche personali che sembrano farne l’opposto, in realtà è fatto della stessa pasta del professore, è uno che quella mentalità prova a cambiarla.
Dice le verità scomode, non blandisce gli avversari, non cerca accordi o compromessi impossibili, rifugge il retroscena, dichiara i propri obiettivi senza fare sconti anche a quelli che sente più vicini, come Veltroni.
Ieri a “Porta a Porta” ha detto che se imporranno il doppio turno alle primarie, lui non farà accordi di sostegno al secondo turno e tutti quelli che si candidano senza speranza di vincere, solo per sedersi al tavolo della spartizione, con lui perdono tempo. Mai sentita una cosa simile!
Cari amici del centrodestra, non c’è perciò da stupirsi della lettera di Gnassi e Vitali a sostegno di Bersani.
Non è l’età che fa il rottamatore, sono le scelte politiche, non quelle di immagine.
Entrambi hanno raggiunto il loro incarico prestigioso grazie ad un meccanismo di cooptazione, poggiando sull’apparato del partito. Si sono liberati in modo più o meno “rinascimentale” di vari padrini. Interpretano il partito della spesa pubblica e detestano Monti. Perché dovrebbero stare con Renzi? E se il sindaco di Firenze vincesse le primarie? Bhe! In questo caso domani è un altro giorno, bellezza.
Sergio Gambini