Sic, così distante così vicino
Sepang, Malesia, secondo giro, l’Honda bianca di Marco Simoncelli sbanda, chi sta guardando dalla televisione la vede prima sparire dallo schermo poi rientrare impazzita e tagliare la strada alle moto di Edwars e Rossi, tagliare la strada ai sogni di un ragazzo simpatico, genuino e follemente spericolato. Marco Simoncelli, aggrappato alla sua moto sino all’ultimo istante di vita, è la foto universale di chi ha il coraggio di scegliere la cosa che ama, anche se per farlo è necessario mettere su un vassoio se stessi. Ci sono vite che avvertono la morte più di altre, la sentono, la annusano, la vedono ma la scacciano via. E’ così per tutti quelli che praticano discipline pericolose e a prescindere dall’età hanno scelto di mettere in conto il rischio: si mettono in gioco consapevoli di gareggiare anche contro la morte. Perché?
Inutile provare a capire, per entrare nella testa di uno di loro bisogna ripartire da zero, resettare la comune percezione della paura. Piloti, alpinisti, velisti in solitaria, folli come Felix Baumgartner, il paracadutista austriaco che qualche giorno fa si è lanciato dalla stratosfera, da quasi 40000 metri d’altezza, andando incontro al mondo come nessuno mai. Tutti uguali e così diversi dalla maggior parte di noi. E quanto sia forte questa passione che li spinge a inseguire loro stessi, quando sia magnificamente spiazzante scegliere in modo così netto la propria vita, possiamo ritrovarlo nelle disarmanti parole, nelle crude, ma oneste parole di papà Paolo Simoncelli: “Io e mia moglie rifaremmo tutto pur sapendo che va a finire così”.
E’ quasi fastidioso ricordare Marco oggi a un anno esatto dalla sua morte, ricordarlo per questioni di calendario ma è l’inevitabile onda che ritorna, come un reflusso d’emozione, come di nuovo toccare con mano la felicità della sua scelta di vita. La morte di Simoncelli ha colpito tutti, anche chi non seguiva le sue gare, anche chi delle moto non gli importava nulla, questo ragazzo con la sua parlata romagnola, con il suo modo di fare schietto, con la sua naturalezza ha toccato tutti. Ecco, forse è stato quello, il suo sembrare normale, così vicino a tutti noi che non ci ha fatto accettare la sua morte. La morte improvvisa non te la spieghi mai, non riesci a rassegnarti, non la capisci, non la accetti, è stato così anche per Piermario Morosini, giocatore del Livorno morto in campo ma è così per tutte le persone che viviamo da vicino. Allora assieme al ricordo della forza della vita di Simoncelli, dei suoi riccioli, della sua allegria, ricordo le meravigliose parole di un anno fa del vescovo Lambiasi che nella sua commovente omelia ha cercato di spiegare, da cristiano, il perché di un dolore immenso che a volte ci sfiora, a volte di tocca, e altre sembra vincerci.
“Permettetemi che mi senta anch'io percuotere il cuore da quella domanda inesorabile: perché Marco si è schiantato domenica scorsa alle 9,55 sull'asfalto dell'autodromo di Sepang? Io non posso cavarmela ora con risposte preconfezionate, reperibili sulla bancarella delle formule pronte per l’uso. Sì, alle volte noi credenti pensiamo di svignarcela con l'allusione enigmatica a una indecifrabile volontà di Dio. Il mio animo si ribella all'idea volgare di un Dio che si auto denomina “amante della vita”, che mi si rivela come il Dio che “ha creato l’uomo per l’immortalità” e poi si apposta dietro la curva per sorprendermi con un colpo gobbo o una vile rappresaglia. Datemi un po’ del vostro coraggio e aiutatemi ad abbinare, a quello di Marco, il nome dolcissimo del Maestro mio e di ogni cristiano. Voi lo conoscete: il suo nome non è di quelli che condannano a morte; lui si chiama Gesù, che significa “Dio-Salva”. Dove stava allora Gesù in quell'istante fatale in cui il corpo di Marco ha cessato di vivere? Stava lì, pronto per impedire che Marco cadesse nel baratro del niente e per dargli un passaggio alla volta del cielo. Sì, Gesù è il nome del Figlio di Dio che ha preferito me, te, ognuno di noi viventi, tra la sterminata folla degli esseri ibernati nell'abisso del nulla. Gesù non è venuto a spiegarci il dolore né a salvarci dal dolore, ma ci ha salvati nel dolore e lo ha fatto con il suo sangue innocente. Gesù è il nome del Figlio di Dio che ci ha amati con l'amore più incredibile e ha definitivamente sconfitto la morte con la sua risurrezione. Perciò è sempre là, all'imbocco del tunnel della morte, pronto per afferrarci e portarci a godere la gioia senza più se e senza più ma.
Gesù, che registra sul suo diario perfino un bicchiere d'acqua fresca dato con amore, domenica scorsa stava là a dire a Marco: “Grazie, per tutte le volte che mi hai abbracciato nei fratellini disabili della Piccola Famiglia di Montetauro. Grazie, Marco, per tutte le volte che mi hai fatto divertire tanto, quando hai partecipato alla gara delle karatelle nella festa patronale della tua parrocchia. Grazie, perché tutte le volte che hai fatto queste cose ai miei fratelli più piccoli, le hai fatte a me”. Addio, Marco. È una parola scomposta dal dolore, ricomposta dalla speranza: a-Dio!”
Francesco Pancari