È singolare come sia facile al contempo celebrare il tema della memoria e del ricordo, e cadere nel più profondo oblio delle ragioni per cui meritano di esistere giornate di questo genere. Oggi, a lezione, uno studente mi chiede: “ma perché ricordare queste persone, questi eventi?”. Domanda tutt’altro che banale, anche alla luce di quel che si vede ripetersi attorno a noi, tra scontri di vecchie ideologie, polemiche pretestuose, parzialità terribili nel ricordare i drammi del nostro tempo.
Per anni abbiamo giustamente celebrato nella Giornata della Memoria (27 gennaio) la tragedia dell’Olocausto (unica nel suo genere), inorridendo per le violenze razziali perpetrate dai Nazisti. Tuttavia troppo spesso questa celebrazione ha avuto un sapore strano, un retrogusto d’artificiosa parzialità, una sorta di occulta retorica falsante che rendeva quel momento non pienamente autentico. Con l’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, - giornata che cade il 10 febbraio - si è tentato di porre un parziale rimedio a quell’oblio occulto. Con il ricordo dei caduti nelle foibe e dell’esodo degli italiani del confine orientale, si è finalmente guardato qualcosa che era sotto casa, vicino, prossimo, e dunque ancor più scandalosamente taciuto.
Ma per rispondere alla domanda del nostro studente, occorre fare uno sforzo ulteriore.
Se andiamo a vedere i grandi drammi del Novecento, troveremo un tratto comune, che ci aiuterà in questa ricerca.
Sforzandoci un po’ in questo esercizio di memoria, troveremo ad inizi Novecento la tragedia che il giurista Raphael Lemkin, colui che poi nel ’44 coniò il termine genocidio, intese sottoporre all’attenzione della stessa Società delle Nazioni. Si tratta del genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi nel 1915 (si parla di circa un milione e mezzo di morti). Ignoto per il grande pubblico e nelle scuole fino a una quindicina di anni fa, tutt’oggi è ben poco conosciuto. Per non parlare della tragedia dell’ Holodomor, ovvero la morte procurata per fame da Stalin agli Ucraini, notoriamente ostili ai principi della rivoluzione, all’interno del contesto della grande carestia ad inizio degli anni ’30 in URSS. Anche questo evento rientra, a parere di Lemkin, nel novero dei genocidi.
Proseguendo questa carrellata esemplificativa, incontriamo la tragedia di Katyn, dove l’URSS tentò di azzerare la coscienza nazionale polacca, decapitandola delle sue classi dirigenti. Ben 22mila ufficiali dell’esercito, a freddo e senza motivazione bellica, furono uccisi e sepolti in fosse comuni presso Katyn. Malgrado da subito fosse chiara la cronologia dell’evento, attestato da rilievi degli operatori della Croce rossa, e dunque la responsabilità dei russi allora occupanti (1940), gli stessi riuscirono ad accreditare fino agli anni ‘90 la tesi della colpevolezza dei nazisti, giunti 3 anni dopo in quell’area e scopritori delle fosse.
Possiamo poi prendere in considerazione i Laogai, i lager cinesi, tuttora attivi e ben poco noti salvo ai lettori più attenti (il test sui miei studenti ha dato risultati pari a zero per tutto quanto sopra citato), di cui, qui a Rimini, dieci anni fa, potemmo ascoltare una descrizione da un testimone diretto, Harry Wu, ospite del Meeting.
Ma gli stessi Lager russi, fino agli anni ’80 erano un tabù per l’opinione pubblica di massa.
Mi permetto inoltre di tornare a inizio secolo, viaggiando al di là dell’oceano, per ricordare la guerra cristiada, combattuta dal popolo messicano contro la laicizzazione forzata dei governi rivoluzionari di ispirazione massonica.
Il tratto comune di queste esperienze, pur così diverse, è chiaro.
Pur nella loro estrema differenza, queste esemplificazioni (qui necessariamente riportate per cenno e dunque senza i tanti dettagli e distinguo che sarebbero fondamentali per una più approfondita descrizione) possiedono un tratto comune che ci rilancia fortemente sull’oggi e che rende ragione alla preziosa domanda del mio studente, “ma poi perché oggi ricordare questi eventi?”.
Si tratta di un elemento comune che eccede - per spregiudicatezza, dimensioni, brutalità - ogni altra ragione (di potere, di carattere economico o politico, o che faccia capo a violenze e vendette). In tutti questi casi assistiamo al tentativo di costruire una società sulla base di un programma politico che azzera l’uomo reale, la società esistente, il popolo nella sua concreta espressione effettiva. In nome della razza da ripristinare nella sua purezza, in nome della giustizia sociale, in nome di un astratto progresso frutto della pura ragione o in nome di un nazionalismo di maniera, troviamo regimi che si sentono legittimati - e dunque zelanti nell’esercizio del loro potere - a ridefinire i connotati di un popolo, eliminando chi non rientra in quanto già definito.
Oggi occorre tornare a ricordare quegli eventi, perché se ne riconosca l’origine comune, quel vizio della contemporaneità che si condensa nel cedimento alle ideologie portatrici di una tentazione totalitaria. Di contro si tratta di comprendere quale sia l’unico valore che possiamo affermare nella storia, attraverso un’azione politica autenticamente costruttiva: la libertà dell’uomo. Quell’uomo concreto, in carne ed ossa, portatore di limiti ma anche di risorse preziose (talora imprevedibili), e che tuttora è dimenticato, cacciato nell’oblio a causa di slogan, proclami, parole d’ordine, magari foriere di voti ma dimentiche di chi è il reale protagonista delle azioni che proclamiamo.
In fondo è una terribile leggerezza che dobbiamo lasciarci alle spalle e la forza drammatica che alcuni eventi passati possiedono può risvegliarci e farci accorgere che non è possibile accontentarsi di “un gioco tattile sulla superficie delle cose” (Nietzsche), specie se si parla della cosa pubblica e dell’interesse di milioni di persone.
La drammatica vicenda degli esuli italiani del confine orientale, dovrebbe farci ricordare che erano uomini in fuga non solo da vendette legate al conflitto, ma da un regime che mostrava tratti disumani, uomini non accolti adeguatamente dalla stessa loro nazione, spesso in nome di un principio ideologico analogo a quello che fuggivano. Una ostilità ideologica che oggi si ripropone in forme nuove e secondo nuovi slogan. Una “leggerezza” politica che dobbiamo assolutamente sconfiggere, affinché si affermi l’unica risorsa tanto del nostro come di ogni tempo: l’uomo, quale io unico e irripetibile, mai riducibile a categoria sociologica.
Emanuele Polverelli