“La speranza è una conquista di ogni giorno. Ogni giorno prego per avere speranza, per saper leggere i segni della realtà con gli occhi di Dio”. Sono le ultime battute di una conversazione con padre Bahjat Elia Karakach, 43 anni, francescano, guardiano del convento della Conversione di San Paolo a Damasco. Il religioso, che parla perfettamente italiano avendo vissuto per quindici anni nel nostro Paese (è stato maestro dei postulanti della Custodia di Terra Santa a Montefalco, in Umbria), sarà questa sera (30 ottobre) protagonista di un incontro su “La lunga guerra di Siria. Storie e testimonianze di cristiani”, che si terrà al Centro Tarkovskij organizzato dal centro culturale il Portico del Vasaio e dal Comitato Nazarat.
In Siria le armi sparano dal 2011, il paese è stato devastato da una guerra che ha lasciato sul campo oltre mezzo milione di morti. I riflettori internazionali si sono riaccesi di recente per l’offensiva della Turchia contro i curdi. “In realtà – spiega padre Bahjat – sembra che la guerra stia terminando. Dopo la riconquista da parte di el-Assad delle zone di Damasco ed Aleppo, i gruppi armati ribelli si sono concentrati nella provincia di Idlib. Quindi non si combatte più, tranne che in poche zone”. Padre Bahjat la guerra l’ha conosciuta da vicino. Una bomba è caduta sulla sua chiesa mentre era solo a recitare il rosario. Provvidenzialmente un minuto prima si è alzato per camminare e si è allontanato dal punto dove è caduto l’ordigno. “L’ho letto come una conferma della missione che sono chiamato a vivere in Siria”, commenta.
Se il conflitto adesso è circoscritto, è però presto parlare di ritorno alla normalità di vita. “La guerra – prosegue il francescano – ha provocato danni profondi. Siamo in una grave recessione economica, aggravata dal fatto che perdurano le sanzioni e l’embargo. A farne le spese sono soprattutto i più poveri. Ancora capita di restare senza medicine, senza gas, senza energia elettrica. E gli inverni in Siria sono molto freddi. Anche le organizzazioni umanitarie faticano a far arrivare aiuti, trasferire denaro in Siria è ancora difficile. I giovani se ne vanno e lasciano gli anziani soli. La ricostruzione è cominciata ma procede molto lentamente”. Nemmeno le macerie dei bombardamenti sono state completamente rimosse, Damasco resta isolata nel contesto internazionale, la Santa Sede è l’unico Stato occidentale ad avere l’ambasciata aperta.
In questo contesto continua a vivere una comunità cristiana che ha radici antiche, la grande diffusione dell’annuncio cristiano nel mondo è partita da lì, dalle strade e dalle case di Damasco. “La Chiesa – racconta padre Bahjat – si è molto impegnata sul piano umanitario e sociale negli anni della guerra. Adesso la sfida è lo sviluppo. Noi, non solo i francescani ma tutta la Chiesa, cerchiamo di contribuire con la formazione. C’è l’urgenza di aiutare i giovani a recuperare gli anni bui quando non riuscivano ad andare a scuola o all’università. Solo con la formazione ci può essere qualche speranza perché trovino un lavoro. Il bisogno però è immane, la situazione è più grande di noi, non possiamo sostituirci ai compiti dello Stato che comunque cerca di riorganizzarsi. Succede però che in una classe si trovino 60/70 alunni perché i bombardamenti hanno distrutto le scuole”.
La guerra, oltre che i mattoni, ha il terribile potere di distruggere l’umano. Prima del 2011, i cristiani avevano vissuto a lungo in pace accanto ai musulmani. La guerra ha seminato il tarlo del sospetto: il vicino, musulmano o cristiano, non è più l’amico, ma un potenziale nemico, forse un pericoloso terrorista. “La guerra ha provocato molte di queste ferite. – racconta il francescano – Tuttavia non mancano le evidenze che tanti sono pronti a cominciare un percorso di riconciliazione. Personalmente conosco storie di persone che sono state toccate e ferite, eppure adesso non se la prendono con il vicino musulmano. Capiscono che certi fenomeni sono stati portati dall’esterno, non sono nati nella nostra società”. La paura dell’altro, l’ostilità verso chi è diverso possono essere superate. Padre Bahjat Elia Karakach è testimone di un episodio interessante. I frati francescani si sono insediati in una zona di Aleppo est che era stata occupata dai terroristi. Per sei, sette anni hanno vissuto sotto le imposizioni del fondamentalismo islamico ed inevitabilmente ne hanno assorbito cultura e pregiudizi. I francescani adesso sono presenti con un ambulatorio e con u centro di formazione professionale. “All’inizio – racconta – i musulmani erano molto diffidenti, pieni di pregiudizi. Vivendo insieme, i muri sono caduti. Lo si vede anche dal cambiamento del modo di vestire. Le donne erano tutte velate, nemmeno ti guardavano negli occhi. Adesso non è più così. La nostra presenza ha inciso sul loro modo di guardare ai cristiani”.
Nella rete ci sono molte interviste di padre Karakach che sempre sottolineano un punto: la strada per la pace è l’incontro con l’altro, con chi è diverso. “Dobbiamo prendere atto – osserva – che il fondamentalismo esiste, che è stato fomentato da alcuni paesi arabi, e nelle nostre società alimenta la sfiducia, il sospetto sul nostro vicino musulmano. Noi cristiani dobbiamo avere il coraggio di gesti di accoglienza, senza pregiudizi. Non dobbiamo generalizzare, non tutti i musulmani sono terroristi. Se invece ci rinchiudiamo in un ghetto, pur con tutto il bene che facciamo, non siamo il sale della terra che siamo chiamati ad essere. La presenza dei cristiani in Siria non è ininfluente, non è a lato della società, può essere invece un fermento contagioso”.
Purché i cristiani rimangano. Un altro degli effetti disastrosi delle guerre in Medio Oriente è che spingono anche i cristiani a fuggire, a lasciare il loro Paese. “Alcuni – spiega il religioso – fuggono perché spinti da condizioni di vita insopportabili. Altri, pur benestanti, vogliono comunque partire alla ricerca di condizioni di vita migliori. Ma c’è anche un altro fenomeno: alcuni, nonostante tutte le difficoltà, vogliono rimanere. Avvertono che hanno una missione da compiere. La mia presenza, dicono, può essere utile per avviare un cambiamento”. Cosa dice lei a chi vuole partire? “Non posso giudicare. Noi, come Chiesa, siamo comunque impegnati non solo per l’emergenza umanitaria, ma per rinnovare le nostre radici cristiane. A volte gli stessi cristiani non hanno coscienza di appartenere ad una storia che ha costruito il volto della Siria. Il cristianesimo non è qualcosa di accidentale o portato dall’esterno. Lo dice anche il presidente el-Assad: i cristiani non sono uccelli migratori. Stiamo editando una storia dei santi siriani per bambini per aiutarli a comprendere che il cristianesimo è all’origine della storia della Siria. Spesso nei programmi delle scuole questa verità è sottaciuta”.
Valerio Lessi