Trovarsi a vent’anni ricoverato in un ospedale psichiatrico. Le autorità hanno emesso un TSO perché a causa di un moto di rabbia ha distrutto la casa e ha fatto venire un collasso nervoso al padre. Tutto per l’incapacità di sopportare un’ingiustizia che a lui sembra enorme, senza senso. Ha appena visto con i propri occhi che un incidente sul lavoro ha trasformato un ingegnere nucleare di 35 anni in un bambino che ha bisogno delle cure e delle carezze dei genitori. Allo psichiatra racconta: "Ma non so' riuscito a smette de pensa' a quel ragazzo, m'è montata una rabbia, possibile che nessuno s'accorge che semo' come piuma? Basta 'no sputo de vento pe' portacce via. A che cazzo serve tutto?". Per Daniele Mencarelli ogni dolore umano rappresenta un urto, un male intollerabile. Nel suo primo romanzo, La casa degli sguardi, il pugno nello stomaco era rappresentato dallo scandalo per il dolore innocente, quello dei piccoli ricoverati all’ospedale pediatrico Bambin Gesù. Quell’anno di permanenza sotto gli sguardi dei bambini ammalati costituisce il suo faticoso itinerario verso la rinascita.
In Tutto chiede salvezza, uscito da Mondadori nelle scorse settimane, siamo al prequel, a ciò che accadde cinque anni prima, nell’estate del 1994, quella dei mondiali negli Stati Uniti. Anche in questo romanzo Mencarelli mette a nudo senza pudore le sue fragilità, i suoi errori. Una scelta carnale e realistica che conduce il lettore a immergersi in un’esperienza autentica. Daniele ha vent’anni, si è iscritto senza successo a giurisprudenza, ha trovato lavoro come rappresentante di climatizzatori. Da tempo entra ed esce dagli studi psichiatrici, senza che i medici riescano ad emettere una diagnosi precisa. Scrive poesie, ma l’unica persona a cui le legge è sua madre. La sua vita è un grido. Dice al dottore dell’ospedale: “Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ de senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se tutto è senza senso non lo accetto, allora vojo morì”.
Domande a cui gli psichiatri che incontra, descritti come cinici e freddi burocrati del disagio, non concedono un briciolo di empatia. Trova invece un’inaspettata corrispondenza con i compagni di sventura, gli altri cinque ricoverati nella stessa stanza. Da Madonnina, così chiamato perché ossessivamente ripete “Maria ho perso l’anima, aiutami Madonnina mia”, a Gianluca, nella cui mente bipolare di ragazzo vive una donna; da Alessandro, che da quando, manovale con il padre muratore, ha tirato su storto il suo primo muro, guarda fisso un punto nel vuoto, al gigante apparentemente buono, Giorgio, fino a Mario, il maestro elementare messo a riposo, che di Tso ne ha collezionati già quattro. Giorno dopo giorno, Daniele Mencarelli scopre che quelle persone rifiutate dalla vita, quei reietti, sono la cosa più somigliante alla propria natura che gli sia mai capitato d’incontrare. Uomini feriti, fragili, che chiedono salvezza.
Il Virgilio che lo conduce a questa scoperta è Mario, che fra un discorso e l’altro, gli butta là frasi di questo tipo: “Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi". Lo stesso Mario che un giorno gli espone il pensiero che alcuni uomini vivono la nostalgia del prima, del paradiso, di Dio, e quindi aspirano a tornare a quella condizione. “In questa aspirazione – ha detto Mencarelli in un’intervista - c’è appunto la presenza di qualcuno che sia in grado di salvare. Perché noi da soli non ci possiamo salvare”. Tutto chiede salvezza.