“È la storia di un uomo. Anzi, di due. O di almeno cinque. Ma in realtà è la storia di tutti noi. Di un arrembaggio all’impossibile, che ne scassa i forzieri e fa piovere intorno i suoi incredibili, clamorosi tesori.
Tesori che invece di trasformarci da poveri in ricchi, fanno tanto, tantissimo meglio: ci trovano schiavi e ci rendono uomini liberi”.
Fabio Genovesi introduce con queste parole la storia che racconta in Cadrò, sognando di volare, uscito da Mondadori nel gennaio scorso. È la storia di Fabio e di don Basagni, ed in controluce l’epica di Marco Pantani e di quell’irripetibile estate del 1998 con il duplice trionfo al Giro d’Italia e al Tour de France.
Fabio ha ventiquattro anni ed è il prototipo dello sfigato, vive una vita che non è la sua. Studente di giurisprudenza per una scelta obbligata, alla famiglia dà d’intendere di essere prossimo alla tesi, quando invece non ha dato che pochi esami. Pensa di raggiungere gli amici in vacanza a Siviglia, quando gli arriva la cartolina che lo spedisce al servizio civile in un convento sull’appennino toscano. Lì dovrebbe fare l’educatore, ma in quel luogo sperduto ci trova solo personaggi inverosimili. Un sacerdote, don Mauro, che continuamente aggiusta un pulmino che non serve a nessuno perché i ragazzi non ci sono più; Gina, una bambina che si crede una gallina, e don Basagni, il direttore, un anziano sacerdote scorbutico e lunatico che non esce mai dalla sua stanza e che ha alle spalle un passato di missionario in America Latina.
Ben presto Fabio scopre che uno dei suoi compiti è andare a lavare don Basagni, che all’inizio lo tratta con ostilità e nemmeno gli rivolge la parola. Ma quelli sono i giorni del Giro e poi del Tour, e Fabio e don Basagni scoprono di avere una passione in comune, il ciclismo, o meglio le strabilianti imprese di un ragazzo di Cesenatico che corre con una bandana in testa. Pagina dopo pagina, il romanzo diventa l’epopea del Pirata, quell’atleta che torna sulla bicicletta dopo un incidente che gli è costata la frattura di tibia e perone.
Le gesta del Pirata sono raccontate in una prosa febbrile e dirompente che ha il respiro della poesia: i duelli con lo svizzero Zulle e con il russo Tonkov al Giro, il lutto per la morte del mentore e direttore sportivo Luciano Pezzi, le fatiche al Tour con quell’incredibile fuga nella penultima tappa sul colle del Galibier, quando riesce a dare ben nove minuti al diretto rivale Urlich, ipotecando la vittoria finale. Le scalate in velocità di Marco Pantani (“Le faccio per abbreviare la mia agonia”, disse a Gianni Mura, grande giornalista scomparso in questi giorni) diventano la metafora di quell’arrembaggio all’impossibile di cui ognuno sente la spinta interiore.
E le gesta del Pirata smuovono anche Fabio e don Basagni, che finalmente fanno i conti con se stessi, decidono di non mentirsi più e compiono il gesto liberatorio di partire per Cesenatico per andare a festeggiare il loro eroe. “Naufraghi stupendi alla deriva, che piangono e ridono, piangono e ridono, aggrappati stretti a questa folle, smisurata, impossibile meraviglia”.
Come la prosa di Genovesi, che commuove e suscita sorrisi, e conquista ad ogni pagina.