Forte di una consuetudine ben nota ai partiti, da Rifondazione di ieri alla Lega di oggi, anche il PD di Rimini si fa partito “di lotta e di governo”. E pur dopo l’accordo raggiunto, l’anima identitaria, dei valori e della tradizione, e quella del fare, che invece proclama autonomia e libertà di manovra, continuano a fronteggiarsi minacciose.
Ma è solo un trucco.
Nel senso che il punto di mediazione tra le due anime (a Rimini le chiamano “continuità e discontinuità”) non ‘casca’ mai fuori dal perimetro di controllo del partito e delle sue regole: solo una sorta di dialettica retorica, che non ne sposta la cultura e la concezione del proprio ruolo. Al massimo muove qualche poltrona.
A ben vedere, questo narcisismo di protesta e di governo, - oh, se si piacciono! - non fa che enfatizzare la smodata e ormai incontrollata autoreferenzialità della politica; un problema, peraltro, che riguarda anche l’opposizione di centrodestra.
Ad esempio.
Chiara Bellini, vicesindaco di lotta in pectore, invoca partecipazione per le scelte future. “La cittadinanza deve essere coinvolta prima, non dopo. Solo così le persone si sentiranno parte delle decisioni, anche quando quelle prese non saranno quelle sperate.” In realtà non è che, anche prima dell’era Gnassi, i cittadini contassero tanto. Basta pensare a quello che sarebbe stato il project financing dell’amministrazione Ravaioli, e che avrebbe dovuto rivoltare l’intero lungomare, con tanto tanto e tanto cemento, un grattacielo in prima linea, la rotonda in mare e immobili vari. Ma, a parte il passato, bisogna capire a quale partecipazione ci si riferisca.
Se il problema è la possibilità di esprimere un parere, gli strumenti tecnologici attuali possono autarci facilmente; e probabilmente basterebbe la pagina facebook del Comune. Ma dopo? Sopra una certa soglia di gradimento si procede; sotto, invece ci si ferma? Poi ci sono da considerare le competenze e i ‘meriti’. Esperti, intellettuali, mecenati, opinion leader, influencer, baroni e potenti vari, avranno certamente un impact factordiverso da quello di un ‘semplice’ cittadino. E dunque come calcolarlo?
L’impressione è che tutto – la visione, la protesta, la mediazione, il controllo della mediazione - nasca e debba consumarsi dentro “il partito”; e che insomma, né anarchici né libertari, i contendenti non stiano discutendo su come dare il potere al popolo ma solo dei rituali di compensazione interna, con il convincimento - mai venuto meno - che solo il “partito” sappia interpretare e guidare la città.
Questo risulta evidente anche quando si aprono, più o meno traumaticamente, degli spazi di rinnovamento. È successo ad esempio con l’implosione delle associazioni di categoria, nel momento in cui è stato chiaro come – nonostante continuassero a partecipare a tavoli istituzionali o a consigli d’amministrazione – presidenti, vicepresidenti e maggiorenti vari non fossero più in grado di rappresentare i loro associati. E quando questo rituale finalmente è venuto meno, anche grazie ai modi un po’ spicci del Gnassi sindaco, nient’altro però è stato cercato oppure offerto per sostituire quella rappresentanza farlocca. Anche considerando la ‘fiammata’ del piano strategico, la politica (o l’uomo solo, come vi piace) ha presto riempito tutti i vuoti non lasciando posto a nient’altro. E il problema è rimasto.
Allo stesso modo, a destra, dopo tentativi più o meno onorevoli a ogni singola elezione di mettere in campo liste che rappresentassero ‘direttamente’ porzioni di società civile, questo giro chi ‘dà la carte’ ha praticamente fatto sapere da subito di non aver bisogno di suggerimenti e di idee da nessuno, che si sarebbe trovato da solo un civico da candidare, risparmiandosi anche i soliti piccoli ‘ricatti’ di una lista e di quell’altra. Come a dire, della società civile mi interessa soltanto che mi dia un candidato per vincere.
Insomma.
Tra l’uomo solo al comando e il partito solo al comando, tra il governo e l’opposizione, al momento non si vede alcuna differenza. Il grado di apertura, contaminazione, disposizione a cedere potere alla comunità cittadina, è figlio dell’idea di politica che si frequenta e non delle regole che scandiscono la vita interna di un partito e neanche della sua relazione con gli amministratori. Non bastano. Così come non basta appoggiarsi a ogni refolo di protesta per dire che si è dalla parte dei cittadini.
In realtà la politica prima di porsi il problema della partecipazione, cioè di concedere lei ai cittadini una qualche forma di commento sulle proprie scelte, bontà sua, deve porsi di nuovo e molto lealmente la domanda sulla propria capacità di rappresentarla (e qui l’etimologia conta).
Ben prima che sull’analisi, la vera sfida si basa sulla capacità di ascolto; ben più che la ‘visione’ geniale, conta la conoscenza delle risorse e dei bisogni che ‘fanno’ una città. La politica, prima di essere una risposta ai problemi delle persone, delle famiglie, delle comunità, delle aziende, deve chiedere a quelle stesse persone, famiglie, comunità, aziende chi essa sia, a cosa serva. Un bel rischio, ma la città non è il sacco in cui svuotare le proprie idee, magari perché si è onesti (che serve) o perché si è intelligenti (che è comunque meglio) o anche competenti (che sarebbe il massimo).
La città è il luogo di persone e di fatti a cui domandare tutti i santi giorni un aiuto, un esempio, un suggerimento che sostenga sia i valori che il fare (le due anime di cui sopra), da cui farsi sorprendere con idee e sentimenti inaspettati, che ci renda responsabili di una storia che ci precede; cui domandare come poter essere utili e a cui chiedere aiuto quando si ha bisogno. Se troveremo una risposta per noi, potremo dare una mano perché risponda anche a ogni altro. Turisti compresi.
Perché, come dice il solito Calvino (che chiunque si dedichi alla politica dovrebbe recitare a memoria come un giuramento), le città non sono «opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.»