Oreste Godi, 57 anni, insegna storia e filosofia al liceo Volta di Riccione. E’ candidato sindaco per la lista Coriano Sinistra Unita. Originario di Parma, si definisce “orgogliosamente corianese, mai tornerei indietro”. A Coriano si è trasferito “per amore”. E’ sposato e ha un figlio. A Parma è stato attivo in consigli di quartiere, comitati di gestione di asili e scuole, in consiglio provinciale.
Qual è stato il tratto distintivo della giunta attuale, quali gli errori e le mancanze rispetto alle quali chiede una discontinuità all’elettorato?
«Riconosco alla giunta attuale una certa abilità nell’intervenire sui problemi emergenti con molta forza mediatica. È mancata, tuttavia, una visione strategica globale su come amministrare la città. Più grave ancora da parte dell’amministrazione uscente credo sia stato, però, un atteggiamento di chiusura, quella cultura che li porta a considerare l’interlocutore o dentro o fuori: la logica da fortino. Sono stati poco inclusivi, hanno avuto timore del confronto».
Quale visione di città accompagna la sua candidatura, quale sarebbe il tratto originale del suo mandato rispetto alla giunta precedente?
«Lo slogan della mia campagna elettorale è ‘Un’altra Coriano è possibile: partecipata, solidale, sostenibile’. Tre elementi tutti importanti, mi soffermo per ora sul tema del solidale. Mancano forme moderne di socialità basate sulla relazione. Si parla sempre molto di sicurezza, per esempio. Fermo restando che Coriano è una piccola realtà e certi problemi non li ha, qui non è il Bronx, le proposte sono sempre le solite: video sorveglianza o ronde. Noi, invece, crediamo fortemente che vada coltivata e strutturata una funzione di buon vicinato, coinvolgendo i residenti. Guardiamo con interesse, per esempio, ai britannici ‘neighborhood watch'. In pratica, i vicini si aiutano comunicandosi vicendevolmente arrivi, partenze, cosa succede, le novità. Si tratta di costruire una rete solidale che renda inutile una deriva securitaria sempre basata sulla vigilanza armata, di telecamera o armi vere e proprie. Nel modello che proponiamo, il controllo del territorio è una conseguenza dell’attività sociale, non il fine».
Non sempre i vicini però vanno d’accordo tra di loro…
«Occorre una struttura, che il Comune favorisca momenti di confronto, fornisca spazi d’incontro. Coriano sotto questo aspetto è carente. Per fare comunità invece occorre avere dei contenitori dove le persone possano incontrarsi».
Cosa vuol dire governare una città, come si fa, con chi, con quali strumenti?
«Il modello che proponiamo è quello della “città partecipata”. Guardiamo all’esperienza in corso a Grottammare, nella provincia di Ascoli Piceno. Qualche cosa di simile è stato fatto anche a Morciano, prima dell’amministrazione Ciotti, ma in quel caso la partecipazione era limitata al bilancio: si coinvolgono cioè attivamente i cittadini nelle grandi decisioni relative alla destinazione di una quota del bilancio, attraverso forme strutturate, per esempio assemblee, per definire finalità e destinazioni dei fondi messi a disposizione. Il modello che proponiamo varrebbe anche per aspetti differenti da quelli economici. L’obiettivo è che i corianesi tornino a sentire loro la “cosa pubblica”, si riaffezionino, si sentano tutt’uno con l’amministrazione. A Coriano si sente molto la questione della disaffezione: l’ultima volta ha partecipato alle elezioni amministrative il 55% dei cittadini, 5 anni prima il 60%. Tradizionalmente a Coriano votava oltre il 90%. Fermo restando che quello dell’astensionismo è un fenomeno generale, a Coriano il calo è più sensibile».
Può fare degli esempi?
«A Coriano avevamo una biblioteca che ha prodotto negli anni pubblicazioni di valore, anche a livello nazionale. Gestiva il notiziario del comune, un periodico con le notizie non soltanto dell’amministrazione, ma anche di cultura locale, aperto ai contributi di tutte le forze politiche, anche quelle di opposizione. Più culturali, erano i ‘Quaderni della biblioteca’, prodotti in occasione di studi e ricerche, come quelle sulla seconda guerra mondiale realizzate anche lavorando insieme con l’istituto storico della Resistenza. Negli ultimi anni quest’attività non più incentivata si è andata spegnendo e quando il direttore è andato in pensione la gestione è stata esternalizzata ed è rimasto solo il servizio prestito, tra l’altro con sempre meno utenti. Io vorrei riaffidare il servizio a dipendenti comunali e istruire un bando per cercare un nuovo direttore”.
Qual è il problema principale da affrontare oggi per la sua città e come si risolve?
E’ il termovalorizzatore di Raibano. Ci dispiace che ancora una volta siamo solo noi a porre il tema, con forza. Dovrebbe essere una preoccupazione comune: condiziona la qualità della vita nel comune. Sono anni che chiediamo un’indagine epidemiologica sui cittadini di Coriano, dopo aver osservato la diffusione di tutta una serie di malattie, come tumori o affezioni alla tiroide. Manca una ricerca che stabilisca se ci siano delle correlazioni tra queste patologie e la qualità dell’aria. In un luogo attraversato da autostrada, statale, che ospita un centro artigianale, oltre al termovalorizzatore, manca inoltre, uno studio sulle interazioni che possono svilupparsi dalle diverse emissioni e che ricadono sulle persone. Ci abbiamo provato anni fa, ma poi le amministrazioni di Coriano e Riccione, Spinelli e Tosi, hanno deciso di non finanziare lo stralcio finale della ricerca commissionata all’Unimore (l’Università di Modena e Reggio Emilia, ndr): quella relativa alle conclusioni. Per quello che ci riguarda, è fondamentale far ripartire questo studio, insieme a un’indagine epidemiologica».
Cos’è che ha bloccato la ricerca?
«Quello di Raibano è un impianto produttivo, bruciando rifiuti Hera produce energia che vende a Enel. Per funzionare bene, deve bruciare abbastanza. La nostra proposta è uscire da Hera e creare una società in house che gestisca l’impianto e lo porti a una riconversione all’economia circolare, come si fa nel nord Europa. Proponiamo un processo lungo che dovrebbe essere messo in pratica con la collaborazione delle amministrazioni. Il modello dovrebbe seguire le tre R: riduzione, riuso, riciclo. Vale a dire: limitare la produzione di rifiuti da bruciare, magari agendo anche nei confronti delel aziende affinché limitino l’uso di involucri, favorire il riuso di ciò che è possibile e riciclare tutto ciò che è riciclabile. Purtroppo si tratta di percorso a ostacoli perché il termovalorizzatore produce economia».
E le comunità energetiche?
«Siamo assolutamente favorevoli, e venerdì proporremo un incontro proprio su questo tema, che ha bisogno di essere concretizzato. Sicuramente uno dei nostri obiettivi sarà favorire la diffusione del fotovoltaico sul nostro territorio».
Che cosa si aspetta come esperienza personale in caso sia eletto, come si immagina l’essere sindaco?
«Sono 42 anni che faccio politica e m’interesso della cosa pubblica per cui quello che desidero è mettere a frutto quest’esperienza politica, amministrativa, istituzionale, associativa, in una forma partecipata dove il comune è il luogo in cui i cittadini vanno non solo giustamente per chiedere servizi ma anche per decidere insieme come vuole vivere una comunità. Il comune è la cittadinanza che si fa attiva, questo è lo stile che vorrei imprimere alla nuova amministrazione. Se dovessi essere eletto, mi aspetto sudore e sangue. Fare il sindaco di una comunità significa essere totalmente immersi nei problemi piccoli e grandi che i cittadini vivono, ma significa anche la ricchezza di sviluppare progetti, dare fiato e gambe alle speranze e alle aspirazioni della comunità, vivere il proprio territorio insieme agli altri. La ricchezza dello scambio, della costruzione di un progetto comune è la parte più esaltante del mettersi al servizio dei propri concittadini».