Metti un’ora e mezzo di incalzante conversazione sulla letteratura e i suoi dintorni, in un pomeriggio di maggio, all’ora del caffè, nell’aula magna delle scuole Karis, nell’ex colonia Comasca, con tanti posti in piedi. L’ospite è Daniele Mencarelli che almeno da tre mesi gira l’Italia, da nord a sud, per parlare sì del suo ultimo romanzo, Fame d’aria, edito da Mondadori, ma anche, e inevitabilmente, di quel mondo di solitudine, rabbia e sofferenza a cui il romanzo dà voce, o, per dirla con Mencarelli «per comunicarsi ed esprimersi dà parole che non siano quelle della burocratica diagnosi medica». Dopo la dolente trilogia autobiografica (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare), il colpo allo stomaco del lettore è inflitto dalla storia di Pietro Borzacchi, un padre che letteralmente non ce la fa più a sopportare Jacopo, il figlio autistico a basso funzionamento «che non parla, non sa fare nulla, si piscia e si caca addosso». Pietro è sopraffatto dalla disabilità del figlio, ha esaurito tutte le risorse, morali e finanziarie, perché lo Stato è il grande assente di questo dramma. Pensa a una soluzione estrema, quando poi accade qualcosa…
«Considero la mia vita un gesto slanciato verso l’altro, - afferma Mencarelli rispondendo alla prima provocazione del direttore delle scuole Karis, Paolo Valentini - La scrittura per me oggi più che mai è un gesto di testimonianza a chi mi sta intorno, è una estroversione dello sguardo».
Perché questa storia di Pietro? Perché l’autismo? «Si è testimoni perché si frequentano i luoghi della realtà. Negli ultimi dodici anni ho frequentato i luoghi della neuropsichiatria infantile. Ho vissuto alla pari con il disagio degli altri. Per mio figlio l’iniziale diagnosi di autismo è poi evoluta verso un destino che possiamo chiamare più benevolo. Nelle sale d’attesa delle neuropsichiatrie sono stato sfiorato dal destino che ha colpito chi mi era vicino. Che relazione avere con gli altrui destini? Si può ragionare in termini individualisti? No, in realtà il destino in cui siamo coinvolti riguarda tutti, tutti da questo punto di vista siamo consanguinei. Sono stato a contatto con persone che rappresentano il paradigma da cui nasce il personaggio di Pietro, persone che hanno sviluppato la rabbia per la loro condizione di disagio e solitudine».
Mencarelli racconta che in Italia sette famiglie su dieci convivono con una qualche forma di disagio psichico. «Nella mia famiglia il problema ha toccato mia madre e prima di lei mia nonna. Quanto alla mia storia, devo dire che non mi sono mai riconosciuto nelle definizioni che di me dava la medicina, non ho mai accettato di essere ridotto alla diagnosi medica». Vengono in mente i dialoghi fra Daniele, il protagonista di Tutto chiede salvezza, ed i medici del reparto psichiatrico durante il ricovero per TSO. «L’uomo non può essere ridotto alla sua patologia. Per fortuna ho incontrato persone che mi hanno aiutato a leggermi in un altro modo. Mi hanno fornito più parole per potermi raccontare in modo diverso rispetto alla patologia. Ho trovato nella poesia e nella letteratura la mia vera ricchezza».
A proposito di parole, lo scrittore compie un’osservazione che ciascuno può verificare come corrispondente alla realtà. I giovani oggi per descrivere paure e disagi usano sempre più il linguaggio medico rispetto ad un linguaggio normale. Non dicono “sono preoccupato per l’interrogazione di domani” ma “sono in ansia, sono in paranoia”.
Mencarelli, a differenza di altri suoi colleghi non fa corsi di scrittura ma corsi di lettura dei centri di salute mentale. «Lo faccio per offrire, a chi soffre un disagio psichico, parole che lo aiutino a leggere meglio dentro se stesso. L’uomo non si salva solo con la psichiatria, c’è bisogno di parole che arricchiscano l’uomo oltre la scienza. Ho bisogno di più parole per ragionare con me stesso, per entrare più in profondità dentro di me». Anche i giovani a scuola vanno aiutati a ritrovare parole. Lancia una provocazione: «Siamo sicuri che oggi, nel 2023, sia giusto insegnare la storia della letteratura per arrivare al massimo agli inizi del Novecento, o non sia invece più opportuno partire dall’oggi, e poi andare a ritroso?».
Il pubblico, genitori, insegnanti ed anche qualche studente, lo incalza. Vuole capire da dove nascono quei libri che costringono a guardare alla realtà, anche nei suoi aspetti più spiacevoli. «La realtà per me è l’approdo, è ciò che permette di salvarmi. A differenza di ciò che succede ad altri o a un certo luogo comune, la realtà per me non è il luogo della condanna ma è il luogo della salvezza. Da questo punto di vista, l’ospedale pediatrico Bambin Gesù è stato per me una formidabile scuola di scrittura. Quei bambini, che oggi c’erano e domani probabilmente non più, mi hanno provocato una rivoluzione nello sguardo. È come se mi avessero dato una lingua nuova, diversa, per parlare agli altri».
Si torna a parlare del tema del romanzo, l’autismo, della solitudine in cui si ritrovano i famigliari dei malati, dei servizi che mancano, di un’Italia, dove specialmente al centro e al sud, mancano anche i più elementari servizi. «Penso sia ormai inutile contare sulla politica centrale – avverte Mencarelli – forse si può costruire qualcosa solo partendo dal basso, da esperienze locali ricche di risorse».
Il padre protagonista del romanzo è sopraffatto da questi problemi, non ha nessuno su cui contare, dunque non c’è speranza? «La speranza – ecco il secondo avvertimento - non può diventare un’ideologia. Non possiamo chiedere ai genitori di essere degli eroi. C’è speranza quando queste solitudini vengono supportate da una rete, da una comunità. Ricordiamoci poi che gli esseri umani vivono la contraddizione fra ciò che dicono e ciò che pensano. Pietro dice cose terribili sul figlio ma non gli ha mai fatto mancare niente, neppure per un attimo. Pietro non è disperato, è disamorato. Nel mondo di oggi c’è molta ostilità verso la compassione. Tutti dicono “non voglio essere compatito”. No, io voglio la compassione. Perché non si dovrebbe patire insieme. I tre personaggi del romanzo che si accostano a Pietro e a suo figlio - Oliviero, Agata, Gaia - vivono un moto di autentica compassione nei confronti del ragazzo ed anche del padre».
A leggere il romanzo – chiediamo a Mencarelli – sembra sia stato scritto pensando a una serie televisiva, ritmo incalzante, cambio di scena…. «Il mio – risponde – è un tipo di scrittura che coglie l’uomo in azione, come gesto della realtà. Mi dicono che assomiglia al linguaggio cinematografico, ma non ho scritto pensando alla serie».
A quale prossimo progetto sta lavorando? «Scriverò, ma solo a partire dal 2024, un romanzo il cui tema di fondo è il rapporto della persona con la propria origine. Non solo l’origine famigliare, ma anche il quartiere, certi rapporti…».
Valerio Lessi