“Quando incontri un giovane laureato in ingegneria che potrebbe facilmente trovare un buon lavoro e che invece, dopo un lockdown superato con grande difficoltà, cerca qualcosa e qualcuno che lo aiuti a ‘ricominciare’, capisci che il problema non è appena avere un’occupazione e uno stipendio, ma un luogo nel quale sia possibile trovare o ritrovare se stessi. Ancora di più in questo tempo nel quale - oltre all’handicap fisico, alla malattia mentale, al disagio sociale legato all’uscita dal carcere o dalle dipendendenze - ci troviamo sempre più spesso davanti a persone con fragilità caratteriali, attacchi di panico, che vivono con grande ansia la loro relazione con gli altri.”
Inizia così la conversazione con Giovanni Pirozzi e Chiara Colaprete, responsabili della cooperativa sociale In Opera di Rimini. E bastano poche battute per capire che il cuore della loro impresa riguarda proprio la concezione del lavoro e la crisi che ne ha modificato addirittura la natura.
Tutti vedono come sia cambiata l’idea di famiglia o l’idea stessa di persona, e così quella della religione e della politica, addirittura dello sport, e quanto siano cambiati i costumi e i valori che li definiscono; pochi invece riconoscono quanto questi cambiamenti, alla fine, si siano scaricati, pur in modi diversi, sul lavoro, sul modo di guardare e di vivere il tempo che ognuno dedica ad esso lungo le proprie giornate; di come il lavoro abbia perso un po’ alla volta ogni altro valore che non sia quello del reddito, e come le ore che si ‘porta via’ siano solo un’alienazione, qualcosa di estraneo a noi stessi, anzi, da riscattare con un’intensità sempre più spinta del cosiddetto tempo ‘libero’.
Lo racconta bene il ‘solito’ Péguy. “Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Avevano un onore assoluto, come si addice solo all’onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era ovvio. Naturale. Ma non bisognava che fosse fatta bene in relazione alla paga, o perché veniva pagata. E non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli esperti, né per i clienti del padrone. Doveva esserlo in sé e per sé. Questa gamba di sedia doveva essere ben fatta perché così voleva la tradizione, che risaliva dal profondo della razza; e così voleva la storia, l’assoluto, l’onore. E tutte le parti della sedia che non si vedevano erano perfette come le parti in vista.” (Il denaro, Piano B Edizioni, trad. Martina Grassi)
Ciò che rende originale questa cooperativa sociale di tipo B, nata ormai vent’anni fa, è appunto il non voler solo garantire un reddito a persone svantaggiate, ma di offrire loro l’occasione di un ‘riscatto’ o comunque di un’esperienza di realizzazione di sé attraverso il lavoro; e anche, una vera ‘stranezza’ in campo imprenditoriale, che per concentrarsi su questo scopo abbiano deciso di smontare e rimontare un’impresa già esistente che funzionava benissimo dal punto di vista economico, che raccoglieva grandi appalti e gestiva fino a ottocento addetti, riducendone ricavi e personale. “Sì, abbiamo deciso di non partecipare più a grandi appalti pubblici, di cercare commesse solo nella nostra regione, di ridurre progressivamente il numero di lavoratori coinvolti nella cooperativa ed essere non più di centocinquanta. In modo cioè da rendere tutto più vicino e a misura del nostro obiettivo. Una cosa possibile anche perché, man mano che le commesse che abbiamo in corso giungono a conclusione, il personale che adesso è con noi, secondo la legge, verrà assunto dai prossimi vincitori di ogni singolo bando. Un ‘rimpicciolimento’ dunque che non ha tolto comunque il lavoro a nessuno.”
Chi conosce il mondo del sociale sa bene che il rischio è proprio quello di perdere di vista l’obiettivo originale e di concentrarsi di fatto sulla sostenibilità economica della cooperativa, che invece dovrebbe essere solo lo strumento. “È un rischio sempre presente, quello di scordarsi perché hai cominciato tutto questo. E bisogna ricordarsi l’un l’altro – in particolare noi che curiamo la sostenibilità della cooperativa, che cerchiamo lavori e commesse – che non abbiamo un prodotto o un servizio da vendere, ma persone con cui abbiamo preso un impegno; e guardare ogni singolo volto senza fermarsi a ciò che lo rende diverso, alle etichette (il tossico, l’esaurito, il carcerato, l’handicappato, …), ma guardarlo come vorresti essere guardato tu.”
Questa ‘promessa’ riguarda la proposta che viene fatta a ogni persona che decide di lavorare a In Opera. “L’impegno che ci prendiamo è quello di offire a ognuno una relazione di lavoro che possa accendere le persone e rilanciarle alla scoperta di sé stesse e di ciò che può rendere piena e felice la vita. In fondo tutto nasce da una esperienza di accoglienza e di bene che noi fondatori abbiamo sperimentato per primi.”
Un impegno importante, che richiede di essere sostenuto nella pratica quotidiana. “Dal punto di vista operativo il nostro lavoro è sempre organizzato in piccole squadre, composte da persone svantaggiate e non che collaborano insieme. E abbiamo una serie di capisquadra che diventano a tutti gli effetti dei tutor personali, coinvolti direttamente nella relazione con le persone del loro gruppo e non appena degli educatori esterni, come accade solitamente, figure cioè non implicate nella quotidianità del lavoro. Con loro condividiamo i nostri obiettivi e ciò che accade nei diversi luoghi, perché sia possibile davvero valorizzare al meglio i componenti di ogni squadra. La riprova è nei fatti. Questa relazione privilegiata, questo modo di proporre e di impostare il lavoro porta a percentuali di assenza e anche di abbandono dell’impiego molto più basse rispetto a quanto succede normalmente nelle situazioni in cui sono coinvolte persone svantaggiate.”
Come ad esempio nelle aziende che, secondo la legge 68/99, sono obbligate ad assumere un certo numero di esse, che spesso vengono parcheggiate, se non addirittura nascoste, e comunque certo non ‘curate’. “La maggior parte delle commesse che sono gestite da In Opera riguardano lavori di pulizia, guardiania, portierato, call center e back office, e anche lavori manuali di fine linea produttiva. Grazie a un accordo ‘trilaterale’, sancito a livello regionale e che coinvolge le aziende, il lavoratore e la cooperativa, oggi è possibile per noi costruire volta a volta un progetto nel quale ci facciamo carico delle persone svantaggiate da assumere, fornendo con esse un servizio all’azienda che deve ottemperare all’obbligo, a volte anche nei nostri locali e comunque sempre con le attenzioni, le procedure e il lavoro in squadra che ci definiscono.”
Un’esperienza dunque innovativa e originale, ma sbaglieremmo a pensare che riguardi solo coloro che definiamo ‘svantaggiati’. Chiunque ne incroci le storie, personalmente o anche solo attraverso un racconto, non può infatti non interrogarsi sul proprio modo di concepire il lavoro e addirittura sé stesso, su “cosa renda piena e felice la propria vita”. Magari accorgendosi che persone che normalmente sarebbero espulse dal ciclo produttivo perché non abbastanza efficienti stanno indicando una strada anche a noi.
(rg)