Prendo in mano I Fanciulli dietro le porte, l’ultimo libro di poesie di Rosita Copioli, e subito da quel titolo mi raggiungono gli echi delle parole spiate, delle parole ascoltate col cuore in gola, quando da piccoli, non visti, volevamo penetrare nei segreti dei grandi che mormoravano cose proibite, dietro la porta. Apro il libro e una parte di me torna bambina, mentre si mette in ascolto di cose che non dovrebbe conoscere e arde di conoscere. L’amore, per cominciare: quello violento “come il seme del fuoco”, e di cui dietro la porta gli adulti non parlano, semmai per paura ci girano intorno. Invece Rosita spalanca la porta e ti scaglia l’amore violento in pieno petto, affinché fin da piccola io sappia cosa cercare e perché cercarlo: se vuoi esistere davvero, come le creature mitologiche, mi dice, devi provarlo, quel fuoco, fino a farti divorare. Avrai come compagni oggi Prometeo, domani San Francesco o Venere o Adamo e andrai da un luogo all’altro, fin dove ti portano le fiamme, là dove “i fuochi del cielo vivranno scendendo misti agli uccelli” e tu conoscerai i vulcani e il suo rovescio che è Hiroshima e vedrai i chiodi nei piedi di Cristo e così saprai cos’è l’amore violento, così simile alla guerra. La voce di Rosita mi prende per mano e mi porta nei luoghi dove l’Adriatico e i ricordi in principio le danno un senso di quiete – “Mia madre veniva da Fiume…”; ma dura tutto pochissimo, perché in “a questa sponda di tutto l’orrore il mostro rimosso ritorna”. È strano come la poesia, che si direbbe così lontana dall’idea della guerra, nasca insieme alla guerra, quella di Achille e della sua ira: ogni volta come la prima volta le parole diventano schegge e proiettili e le donne in guerra, dopo la casa di pietra, perdono anche l’altra casa che serbano al centro del corpo – “Appese a questo peso che cresce, che siamo e non siamo,/ a questo corpo che si dilata. Questo è il trauma che/ non cicatrizza. Bambini crocifissi prima del nascere,/ inchiodati tra sperma e sperma, a raffiche, donne dimore distrutte.” Negli anni Novanta l’Adriatico stilla sangue sulla bella Dalmazia bianca della gioventù. Ma l’Adriatico ha tanti linguaggi per chi ne ascolta gli echi e Rosita lo ascolta da sempre: è cresciuta guardando quel mare, nuotandoci dentro, parlandoci. “Nasco dal mare.”, lei scrive e io scopro leggendola che l’Adriatico non è che il proseguimento dell’Egeo: arrivano dal mare le voci antiche che nella sua poesia scandiscono parole che hanno radici lontano, in Omero, negli oracoli, nella sapienza delle profetesse folli, nei silenzi degli dei aggrottati, nelle danze delle fanciulle, nei loro ingenui ritornelli – “O luna felina, flessuosa regina,/ sull’arco del cielo/ espanso/ come la notte,/ accogli i fedeli, devoti/ alla vita dei sogni”–, finché il mondo ruotando e vorticando dentro spirali di parole diventa un unico canto continuo e le lingue si annodano una all’altra con naturalezza: il latino, il greco, l’italiano, l’antico francese e il dialetto romagnolo (questi ultimi così placidi, melodiosi e simili tra loro) giocano a specchiarsi come per la prima volta, tornati di colpo fanciulli. Io intanto, mentre volto in silenzio le pagine, mi lascio affondare nella materia liquida dei suoni e una volta in quell’acqua materna vorrei non uscirne più.
Franca Zanelli Quarantini Piancastelli