Un’affermazione come quella Don Roberto Battaglia, espressa nel titolo, è senza dubbio paradossale. Eppure in questa intervista ci spiega come, in un tempo così cupo e indecifrabile, si possa vivere senza perdere la propria umanità. E come in questo consista il destino della Chiesa e dell’umanità intera.
La pubblicazione dell’ultimo libro di don Roberto Damiano Battaglia, Ritornare all’origine. Uno sguardo di speranza di fronte alla fine della cristianità, edito da Cantagalli, con prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, cade in un momento particolare per la storia della Chiesa, dalla quale non sono esclusi i movimenti ecclesiali, una delle espressioni più vivide e creative della non facile età post conciliare.
Il testo sarà presentato dall’autore, insieme a Stefano Zamagni, docente di Economia politica e presidente emerito della Pontificia Accademia delle scienze sociali, e al teologo don Pierluigi Banna, docente di patrologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, coordinati da Simona Mulazzani (Icarotv), lunedì 3 giugno, alle ore 21 presso il Teatro del Seminario vescovile “don Oreste Benzi” in via Covignano, 265 a Rimini.
Una pubblicazione e una presentazione non certo di routine, né per addetti ai lavori, ma, come si diceva, capace di toccare nodi rilevanti, ed anche nervi scoperti, di una società assetata di punti di riferimento, ma allo tesso tempo decisa nel rifiutare verità preconfezionate, fino a dubitare dell’esistenza di una qualsivoglia risposta alle sue ansie e alle sue esigenze più profonde ed essenziali.
Nodi rilevanti anche per la Chiesa nel suo insieme, impegnata in un cammino sinodale tutt’altro che semplice e che assiste, spesso con un senso di impotenza e rassegnazione, al calo della frequenza ai sacramenti da parte dei giovani, al calo delle vocazioni, sia sacerdotali che matrimoniali, e ad una scarsa capacità di giudizio originale sulle questioni più urgenti della società, come attesta un interessante dibattito, apertosi da qualche settimana su Avvenire, ricco di interventi qualificati.
È proprio su questi punti, decisivi per il futuro stesso del Cristianesimo e, in fin dei conti, dell’umano, che si colloca il testo di don Battaglia, con un approccio che vuol evitare sia la riflessione puramente dottrinale, lontana dall’esperienza, sia il pragmatismo sociologico-pastorale, spesso privo di spessore. Per questo don Battaglia fa appello all’umanità della fede o, per meglio dire, alla fede che risponde alle domande dell’umano, aspetto che rileva come elemento originario ed originale del cristianesimo.
Gli abbiamo posto alcune domande.
Don Roberto, lei parte nel suo testo dalla frase di Eliot spesso citata da don Giussani, in cui ci si interroga se sia stata l’umanità ad abbandonare la chiesa oppure la chiesa ad aver abbandonato l’umanità. Quando la chiesa abbandona l’umanità? E che conseguenze comporta?
Don Giussani affermò che “noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé”. Così la prima umanità ad essere abbandonata è la nostra, con la conseguenza di una mancata verifica della fede che è senza dubbio la prima causa dell’abbandono della fede stessa da parte di tanti nostri contemporanei. Occorre ripartire dalla nostra umanità per una verifica in cui porsi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo provocando e condividendo le domande di fondo. Ultimamente, in un tempo in cui domina la “paura di vivere”, la questione decisiva è ridotta all’essenziale: “Come si fa a vivere?”
Lei sostiene che partire dall’origine significa partire da Cristo inteso come una presenza e non come una dottrina. Ma perché un uomo impegnato nel suo lavoro, negli affetti, oppure di fronte ai figli, dovrebbe guardare a Cristo?
Appunto, perché? In questo tempo non possiamo più permetterci di dare per scontata la fede, a nessun livello. Questo ci libera dal clericalismo di preti e di laici, che nasce dal porre in primo piano il proprio ruolo e l’organizzazione ecclesiastica dando per scontata la fede e la sua verifica nell’esistenza quotidiana. Guardando a coloro in cui riconosco il ridestarsi di un’attrattiva per l’esperienza cristiana – mi riferisco sia a chi già partecipa in varie forme alla vita ecclesiale sia a chi si accosta ad essa per la prima volta – mi rendo sempre più conto che questo accade per la scoperta di uno sguardo umano capace di abbracciare tutta la propria umanità senza scartare nulla delle proprie domande, anzi facendole emergere. Diverse volte giovani e adulti mi hanno detto di aver trovato nella comunità cristiana un luogo dove poter porre domande. Il primo ad aver bisogno di tornare a incrociare ogni giorno questo sguardo umano sono io.
Cosa significa per la Chiesa intera recuperare l’origine, ovvero Cristo?
Non si tratta di ripartire dal discorso su Cristo ma dalla contemporaneità del suo accadere tra noi. Dire che il cristianesimo è innanzitutto un avvenimento, come hanno affermato sia Benedetto XVI sia Francesco nei documenti programmatici dei loro pontificati e come sottolinea il card. Zuppi nella sua prefazione al mio testo, significa ripartire sempre da una “storia particolare”. Nella nostra pastorale come nella teologia e nella stessa vita ecclesiale contemporanea è tutt’altro che superata la questione nota in cristologia come “il problema di Lessing”. Talvolta in maniera subdola e occulta, ma non di rado esplicitata nei dialoghi correnti all’interno delle nostre comunità, essa riaffiora costantemente come l’obiezione di fondo all’annuncio cristiano: come può un fatto storico contingente, delimitato nel tempo e nello spazio, un uomo singolo, individuabile e incontrabile in circostanze storiche circoscritte in luoghi e momenti precisamente determinabili, rivendicare una pretesa assoluta e universale? Tutto invece ricomincia sempre - per me, per una comunità e per la Chiesa tutta - da un incontro particolare, come è accaduto a Giovanni e Andrea alle quattro del pomeriggio di quel giorno che continuò ad essere il loro presente per tutta la vita. La stessa istituzione ecclesiale è costituita, come affermò l'allora card. Ratzinger, dall’improvviso "irrompere di qualcosa d’altro”, che perturba il tuo orizzonte; un qualcosa inaspettato, non frutto di categorie o di pensiero ma un semplice “fatto”.
E per i movimenti (penso a voi di Cl rispetto a don Giussani, la cui causa di beatificazione sta procedendo in maniera positiva) che significa tornare all’origine?
Fu proprio nel 1968, quando tanti lasciarono Gioventù studentesca ritenendo che fossero più concreti i progetti politici, ovvero le proprie analisi e principi di azione rispetto all’annuncio cristiano, che Giussani rispose a questa sfida con l’affermazione da cui è tratto il titolo del libro: “metodologicamente non possiamo fare altro, se non vogliamo confonderci, che ritornare all’origine”. La questione è radicale, come insisteva lo stesso sacerdote ambrosiano in quegli anni: “[l’alternativa è] se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi”. Papa Francesco ha spesso invitato tutti i movimenti a rinnovare l’esperienza del proprio carisma rispondendo alle sfide di oggi, come i fondatori avevano fatto all’origine. Di recente l’attuale presidente della Fraternità di CL, Davide Prosperi, ha affermato come "la provocazione che viene dalle domande nuove e inedite che il mondo ci mette di fronte, se ci poniamo umilmente in loro ascolto, può paradossalmente aprire a una più profonda scoperta della verità contenuta in Cristo e nel carisma". In questi giorni sono stati inoltre pubblicati i testi integrali del dialogo tra Charles Taylor, Julián Carrón e Rowan Williams (“Abitare il nostro tempo”, edito da Rizzoli), i quali offrono un decisivo contributo in questa direzione, mentre non mancano, nel nostro come in tutti i movimenti, diversi accenti e sensibilità, che, in una reale comunione possono concorrere a riconoscere i “nuovi germogli” dei carismi, i quali “crescono in pienezza, come crescono le verità del dogma e della morale” come ha affermato l’attuale pontefice.
Infine, don Roberto Battaglia è un uomo felice? Ovvero vive la speranza per l’oggi e i giorni prossimi?
Proprio qualche giorno fa un giovane di una delle mie classi dell’Alberghiero Malatesta di Rimini – che non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica – mi ha chiesto inaspettatamente: “Prof., ma lei è contento della sua vita?”. Gli ho risposto “sì” di schianto, sorprendendomi a dirlo come non lo avrei detto anni fa, raccontandogli come negli anni questo sguardo positivo sulla mia vita sia cresciuto, pur dentro i limiti e le fragilità che ciascuno di noi si porta addosso. Il suo sguardo lieto, nel sentirsi dire così, mi ha colpito profondamente facendomi riscoprire come la testimonianza che la vita sia buona e che si possa compiere la promessa custodita nel desiderio del nostro cuore sia ciò che giovani e adulti chiedono. Per questo è bello vivere in questa nostra epoca.
Dove trae la forza la sua speranza?
La grazia più grande di questi ultimi anni è stata quella di cominciare a vedere quello che prima non vedevo. Quando pensiamo all’agire di Dio spesso abbiamo in mente segni clamorosi, come i miracoli narrati nei vangeli, ma la medesima dinamica evangelica la si riconosce non di meno in fatti apparentemente irrilevanti. Un incontro imprevisto, cinque minuti di un dialogo intenso in una classe, una domanda inaspettata di un giovane a scuola, una persona che rimane colpita da quello che tu le comunichi e che, al tempo stesso, sei tu il primo ad aver bisogno di imparare: sono tutti istanti in cui la Persona amata si fa presente e quando si incrocia il suo sguardo cambia tutto.
Da uno sguardo si può ricominciare, da un’idea no. Entrare in una circostanza – come il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo – nella certezza che la Persona amata può spuntare all’improvviso rende le giornate piene di avvenimenti di cui prima non mi accorgevo. Ricominciare dall’origine coincide con questa semplicità evangelica, poiché l’origine stessa è lo sguardo di Colui che ha avuto sete della sete di quella donna incontrata per caso al pozzo e che ha incrociato il desiderio di Zaccheo: nel tempo della fine della cristianità come in ogni momento della storia, l’unica chance per il cristianesimo è lasciarsi sorprendere da quello sguardo.
Il testo sostanzia gli spunti che in maniera viva don Roberto Battaglia ci ha lasciato in intervista. L’invito indubbiamente è quello di leggerlo, ma senza dubbio merita anche di essere seguita la presentazione, rispetto alla quale va segnalata la presenza di due figure di spicco, assai diverse per formazione e per età. Alla saggezza di Zamagni, figura di riferimento per il mondo cattolico, studioso dell’economia e consulente di pontefici, si affianca un teologo giovane ma già con un’esperienza di rilievo sia dal punto di vista accademico, sia nel lavoro educativo coi giovani in università, che sulla fine della cristianità ha già proposto riflessioni assai interessanti, tentando una risposta alla fatidica domanda: “come costruire il cristianesimo, in un’età priva di cristianità?”.
Appuntamento al Seminario di Rimini, lunedì 3 giugno 2024, ore 21.
Emanuele Polverelli