La tenerezza delle cose. Roberta Dallara alla Lavanderia
Il 4 luglio scorso, presso il locale Lavanderia RiCircolo di cervelli, a Rimini, in via Cavalieri 16, si è inaugurata la mostra La tenerezza delle cose: quadri di Roberta Dallara Fino al 31 luglio, da martedì a domenica, orario 17-24.
Roberta Dallara, nata nel 1971, è originaria di Cervia e vive a Bologna. Dopo gli studi al liceo artistico e all'Accademia di Belle Arti. Presente in numerose mostre personali e collettive è recentemente stata selezionata per il Premio Arte 2013.
Ne parliamo con Marina Sangiorgi, scrittrice, che ha curato il testo di presentazione della mostra. Perché il titolo “La tenerezza delle cose”?
Perché la Dallara sa ritrarre il mondo rivelandone la profonda tenerezza, e giustizia, che è data, non dipende da noi, ma che possiamo sempre riconoscere. Le nature morte della Dallara sono vive: le tovaglie, le tazze, pulsano di vita, risplendono di luce. Questa visione non è scontata nella pittura contemporanea, che spesso “si presta all'insinuazione metafisica che le cose esistano soltanto come noi le percepiamo, o che non esistano del tutto” (G.K. Chesterton). Molta pittura realista e iperrealista sottilinea il grottesto, appiattisce la realtà a una sola dimensione. Nelle opere della Dallara invece le cose sono calde, hanno una consistenza e un destino.
Come manifesto di questa mostra si è scelto il quadro che ritrae un semplice sacchetto di colore arancio, un oggetto apparentemente insignificante, perché questo prendersi cura di cose umili?
Quel sacchetto è importante. Anzi: tutti i sacchetti sono importanti. Il dettaglio è centrale, un sacchetto è il protagonista, vale la pena dipingerlo con la massima cura. E accanto al sacchetto c'è un vecchio comodino, di quelli presenti ancora in tante case. Il sacchetto è famigliare, il comodino è famigliare. È sorprendente la coincidenza di esperienza tra autore e fruitore, in questa opera.
Questa familiare normalità pare aleggiare su tutte le nature morte, così come nel quadro con i chicchi di melograno su una tovaglia, dove spicca il bel rosso, e si sente tra le dita la consistenza della stoffa, quel cotone spesso delle tovaglie di una volta o il cocomero tagliato a metà accanto a un girasole, e un fico aperto con la sua carnosa polpa che domina la tela, la riempie. Un frutto solo, scelto, salvato. C’è poi, un’altra sezione di opere che raccontano storie di donne, storie intime con gesti contenuti e piccoli scarti di azione, così che sembrano più introspezioni psicologiche.
Un quadro in particolare mi colpisce, c’è una donna seduta sul letto si toglie le scarpe da lavoro, si mette quelle da tango, nella tensione delle gambe c'è già tutto lo slancio del ballo. La luce che entra dalla finestra bacia il pavimento. È una caratteristica costante delle opere della Dallara: il pavimento è sempre illuminato, baciato, privilegiato dalla luce. Una seggiola vista dall'alto: il merletto bianco, sul cuscino blu. È magistrale, commovente, la delicatezza del dettaglio. La Dallara dipinge donne che guardano dalla finestra, che aspettano, che sperano. Sembra conoscere delle donne tanti aspetti intimi e segreti, e non li rivela. Ma li lascia immaginare: c'è tutta una vita di affanni in queste donne. In un altro si vede una donna già pronta per uscire, in tubino nero e tacchi, finisce di lavorare al computer, con la mano sul collo cerca di alleviare la stanchezza, la solitudine. Deve essere, e non ha pace. Ed è la stessa donna ritratta nel quadro accanto, come un romanzo per immagini, si guarda allo specchio mentre si mette il rossetto, e in un attimo in cui il tempo è sospeso si chiede “chi sono?”. E pare chiederlo anche a noi, che rimaniamo di fronte alla tela, di fronte a lei, con la stessa domanda, protesi nella stessa attesa. Della vita che può ricominciare, e ricomincia infatti, un attimo dopo, burrascosa.
Alessandro La Motta