Una lontana estate /III. Un certo genere di eroi
Gli edifici che attualmente ospitano Seminario diocesano e parrocchia di San Fortunato, sul colle di Covignano nell’entroterra riminese, fecero parte del grande e ricco monastero olivetano di Santa Maria di Scolca, fondato da Carlo Malatesta nel secolo XV ed abbandonato dai monaci sul finire del XVIII a seguito delle soppressioni napoleoniche. La chiesa stessa, in realtà mantiene ancora la dedica a S. Maria Annunziata Nuova di Scolca e, in parte, conserva opere d’arte ed iconografie connesse all’antico insediamento abbaziale.
Tra le tracce lasciate dal tempo sulla tormentata facciata dell’originario tempio olivetano, è possibile notare, inserito in una lesena, uno stemma quattrocentesco, con il monogramma di Roberto Malatesta, signore di Rimini. Sulle possibili ragioni della presenza di tale stemma e sulla relazione tra i monaci ed il titolare della signoria, può fornire qualche spunto il ricordo di ciò che accadde nelle colline vicine durante la tarda estate del 1469, quando si svolse l’ultimo atto della guerra scatenata da papa Paolo II per impossessarsi degli antichi domini malatestiani.
Dopo un pesante assedio alla città di Rimini, le truppe ecclesiastiche guidate dal Tesoriere del Papa, si erano risolte a lasciare – mandandolo in fiamme - il borgo di S. Giuliano ove si erano insediate per alcuni mesi. Lo scopo per cui esse si inoltravano tra i rilievi dell’entroterra era quello di intercettare le forze di Federico del Montefeltro che stavano scendendo da San Marino, per prestare soccorso agli assediati. In tali circostanze, Roberto Malatesta, che aveva sostenuto la resistenza cittadina per tutta l’estate, era a sua volta uscito coi suoi dalle mura urbiche, a prestar sostegno agli alleati. I malatestiani irruppero allora a Cerasolo, mentre gli ecclesiastici fecero tappa a Vergiano fortificandosi, ma gli uni e gli altri conversero poi in direzione della località Burgazzano - di rimpetto a Cerasolo, attuale località Zingarina - verso il campo trincerato di Federico da Montefeltro, ove si accese lo scontro.
La battaglia durò accanita per un intero giorno sino al giungere della sera quando le truppe pontificie, trovandosi lontane dal proprio accampamento, ebbero la necessità di tornarvi, affrontando un rischioso disimpegno, di fronte al nemico in armi. Appena però furono viste ritirare dal terreno le micidiali “cerbattane”, ovvero le artiglierie leggere che avevano provocato non poche vittime tra malatestiani e feltreschi, lo scaltro Roberto intuì la situazione e, richiesto ed ottenuto il permesso dall’alleato, attaccò. In verità, si è al corrente degli eventi che seguirono grazie alla cronaca immaginifica e celebrativa di Gaspare Broglio, uomo al servizio dei Malatesti. Al di là dei toni enfatici, comunque non si fatica troppo ad immaginare il signore di Rimini scagliarsi “a modo di un falcone” sui nemici, seguito dai suoi uomini d’arme. Colti nel momento più delicato della loro manovra, gli ecclesiastici, dopo alcuni tentativi di resistenza, entrarono in una rotta caotica, perdendo uomini ed attrezzature. Alcuni superstiti si rifugiarono a Santarcangelo, altri addirittura a Cesena, luoghi che minacciavano di tornare in mano malatestiana, se Federico non avesse frenato le ambizione dell’impetuoso alleato.
Sullo slancio della vittoria - e probabilmente utilizzando materiali sottratti al nemico - furono poi recuperati parecchi castelli che erano stati parte dell’antico dominio sigismondeo, mentre tra le colline ove si era combattuto rimase una distesa di vittime, tra morti e feriti. Di queste si occupò la carità dei monaci del vicino monastero di Scolca, che pare ne abbiano curate ed ospitate moltissime, ricoprendo così un commendevole ruolo nei drammatici avvenimenti di quell’estate.
Ritornando quindi a ciò da cui si era tratto spunto per accennare alla battaglia, rimane da spiegare la presenza dello stemma sulla facciata della chiesa abbaziale, il quale, tra l’altro, è inserito in un contesto decorativo che ricorda il rinascimento veneto e sembra coevo ad un’adiacente cappella affrescata, ove pitture cinquecentesche sono sovrapposte ad altre più antiche. Si può allora presumere che gli abbellimenti al tempio di Scolca sui quali Roberto appose il proprio stemma, siano stati una sorta di riconoscimento del condottiero per l’attività caritatevole dei monaci seguita alla battaglia? Forse sì, sebbene, allo stato delle attuali conoscenze, ciò non sia dato sapere con certezza; per altro, si può rilevare come quello del monastero di Covignano sia rimasto per secoli uno dei pochi stemmi dei signori di Rimini – esclusi quelli del Tempio malatestiano, che furono salvati in extremis – a sfuggire alla damnatio memoriae successiva alla caduta della signoria.
Sempre a proposito di Roberto, si può aggiungere qualcosa sul suo ritorno in città ove, una volta riaffermato il potere malatestiano, era chiaro che tra lui, la matrigna Isotta ed i figli di quest’ultima Sallustio e Valerio, di galli nel pollaio ve n’erano troppi. Tanto più che gli ultimi due avevano agli occhi di Roberto il difetto di essere eredi testamentari legittimi del padre Sigismondo, a differenza di lui che era stato a suo tempo diseredato per alcuni comportamenti politicamente disinvolti. Sallustio fu trovato morto un anno dopo a casa della sua amante. Sul momento, furono ritenuti colpevoli alcuni parenti della defunta che finirono linciati dalla folla, sebbene poi, a mente fredda, i sospetti su caddero su Roberto il quale, comunque stessero le cose, si trovava ora liberato da un pericoloso concorrente al potere. I sospetti divennero pressoché certezze quando, poco tempo dopo, il fratello di Sallustio, Valerio, fu ucciso da sicari mascherati, mentre si trovava sulla strada per Longiano. Quanto ad Isotta, non mancò a breve di passare anch’ella ad altra vita ed allora l’illazione che la morte fosse stata aiutata con somministrazioni di veleno era quasi inevitabile.
Evidentemente, se qualcuno aveva pensato che il vincitore della battaglia di Burgazzano - e nuovo signore della città – avesse a che fare con l’ideale dell’eroe senza macchia e senza paura, si era sbagliato. Di certo egli non conosceva timore, ma non si creava neppure problemi a collezionare macchie in quantità. D’altra parte, è verosimile che ben poco di ideale fosse rintracciabile nella Rimini brutale e stremata della seconda metà del XV secolo; in siffatti tempi e situazioni, specialmente per la gran parte della popolazione che alle vicende del memorabile assedio aveva contribuito subendo distruzioni e carestia, ciò che probabilmente importava era riuscire a procurarsi l’essenziale per vivere ed un minimo di pace che allontanasse timori di saccheggi e violenze. Per quanto concerneva gli intrighi politici e le lotte di potere, queste erano cose che, in linea di massima, riguardavano ambienti relativamente ristretti e, in una certa misura, privilegiati. In buona sostanza, se si tengono presenti ragioni di questo tipo, si può allora pensare che per i riminesi di quel tempo, quello di cui faceva parte Roberto probabilmente era nulla più che il genere di eroi che ci si poteva permettere.
L. Tonini, Storia di Rimini, vol. V, P. I, , Rimini, 1887, pp. 332 e ss. C. Clementini, Racconto istorico...., vol. II , 1616, p. 499. A. Turchini, La signoria di Roberto Malatesta detto il Magnifico (1468-1482), Bruno Ghigi Editore, Rimini, 2001
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