Anniversario di don Giussani. Cosa abbiamo di più caro? Omelia del vescovo Lambiasi
Cosa abbiamo di più caro? E' il titolo dell’omelia del vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, per la concelebrazione eucaristica nell'11esimo anniversario della morte di don Luigi Giussani e nel 34esimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl. La concelebrazione si sta svolgendo in cattedrale a Rimini
Cosa abbiamo di più caro?
Omelia del Vescovo nella s. Messa per C.L.
Rimini, Basilica Cattedrale, 22 febbraio 2016
Una sola domanda. Una sola risposta. Le trovo entrambe sulla copertina dell'ultimo numero di Tracce. La domanda, tutt'altro che retorica, ma di struggente dolcezza, recita: Cosa abbiamo di più caro? La risposta, basilare e capitale, è affidata alla riproduzione del Volto, quello del Cristo del Masaccio, volto di una bellezza semplicemente sublime. Ogni anno, nel caro ricordo del "santo viaggio" del vostro Fondatore, la liturgia della festa della Cattedra di san Pietro ci fa rileggere il vangelo della professione di fede di Pietro, in cui Gesù rivolge al primo dei Dodici quelle parole che "possiedono la fragranza assolutamente inimitabile di una grande ora storica" (K. Adam): "Tu sei Pietro e su di te, come su una pietra, edificherò la mia Chiesa" (Mt 16,18).
1. Quest'anno, più che parlare io del messaggio e dell'opera di don Giussani, vorrei far parlare proprio lui su questo frammento di versetto evangelico, che ci è stato appena proclamato: "la mia Chiesa". Per questo mi servo del primo volume della sua trilogia, Perché la Chiesa, regalatomi da un comune amico nell'ormai lontano Natale 1990. Nelle primissime righe del primo capitolo - "Come introdursi all'intelligenza della Chiesa" - Don Gius scriveva testualmente:
La Chiesa non solo è espressione di vita, qualcosa che nasce dalla vita, ma è una vita. Una vita che ci raggiunge da molti secoli a noi precedenti. Chi si accinga a verificare una propria opinione sulla Chiesa deve tener presente che per l'intelligenza reale di una vita come la Chiesa occorre adeguata convivenza (p. 11).
Un fattore decisivo compone l'iniziale quadro degli elementi essenziali, portanti, del fenomeno cristiano così come si presenta alla ribalta della storia secondo le indicazioni che ci pervengono dai documenti primitivi. C'è una parola con cui veniva definito il tipo di vita alla quale quella comunità animata dallo Spirito si destava: è in greco la parola koinonia. è una parola che, di suo, non allude ad esperienze particolari - spirituali o psicologiche - bensì a qualcosa di usuale nella vita degli uomini. Questa accezione normale e comune è riflessa anche nel vangelo. Quando Luca parla di alcuni pescatori della Galilea che erano comproprietari di una flottiglia di pescherecci, dice: "Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone..." (Lc 5,10) e usa la parola koinonoi, in latino communicantes: il termine allude a qualcosa che noi chiameremmo i soci di una cooperativa. Indica cioè i rapporti reciproci tra persone che hanno un fine condiviso e possiedono qualcosa in comune. Perciò vigeva tra di loro una concreta solidarietà, che si esprimeva non in una semplice coordinazione di attività, ma in una comunione affettiva ed effettiva di membri e di beni, e in una reale e tangibile cooperazione non solo tra i ruoli, ma prima ancora tra le persone. Pertanto, se si fosse chiesto al gruppo dei primi cristiani di Gerusalemme, che erano soliti vedersi sotto il portico di Salomone: "Ma voi, che cosa avete di più caro?" avrebbe potuto rispondere per loro don Gius: "Possediamo in comune un'unica ragione di vita, la ragione della vita, cioè Gesù Cristo" (p. 120). La comproprietà dei primi cristiani è il mistero di Cristo, come senso della vita, e concludeva Don Gius: "Se si ha in comune il senso della vita, si ha in comune tutto della vita". E questa è la radice e la sorgente della comunione ecclesiale. Scriveva Paul Claudel:
Nessuno dei nostri fratelli, quand'anche lo volesse, è capace di venirci meno, e nel più gelido avaro, nel cuore della prostituta e del più sudicio ubriacone, c'è un'anima immortale che è santamente occupata a respirare. (...) Le ricevo tutte, le comprendo tutte, non ce n'è una sola di cui non abbia bisogno e di cui sia capace di fare a meno! (...) Ci sono molte anime, e non ce n'è una sola con cui io non sia in comunione per mezzo di quella parte sacra in essa, che dice Padre nostro.
2. Diverse sono le connotazioni principali che la koinonia o comunione porta con sé. Ne richiamo due. La prima è un ideale etico: proprio perché hanno Cristo in comune, i primi cristiani sentono come legge della loro convivenza la tendenza a mettere in comune le risorse materiali e quelle spirituali. Qui don Gius sottolinea in particolare l'alta considerazione, all'interno delle prime comunità cristiane, dell'ospitalità e la definisce come "vertice della condivisione, perché in essa si mette in comune tutta la vita della persona" (p. 124).
Un altro fattore è quello che don Giussani chiama "fattore gerarchico", e di cui abbiamo fatto esperienza diretta l'anno scorso il 7 marzo, quando il Papa, con stima e grande affetto, vi ha detto:
Dopo sessant'anni, il carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! (...) Non dimenticatevi mai di questo, di essere decentrati! E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire "pietrificarlo" - è il diavolo quello che "pietrifica", non dimenticate! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro. Il riferimento all'eredità che vi ha lasciato don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi! Così, centrati in Cristo e nel Vangelo, voi potete essere braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa "in uscita". La strada della Chiesa è uscire per andare a cercare i lontani nelle periferie, a servire Gesù in ogni persona emarginata, abbandonata, senza fede, delusa dalla Chiesa, prigioniera del proprio egoismo. "Uscire" significa anche respingere l'autoreferenzialità, in tutte le sue forme; significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera. Quando siamo schiavi dell'autoreferenzialità finiamo per coltivare una "spiritualità di etichetta": "Io sono Cl". Questa è l'etichetta. E poi cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong.
Fratelli e Sorelle di C.L., che il Signore vi benedica mille e mille volte!
+ Francesco Lambiasi