WeFree Run San Patrignano, già 400 partecipanti
Ultima settimana per partecipare alla WeFree Run a sostegno delle attività di prevenzione di San Patrignano. Sono già quasi 400 coloro che si sono già iscritti alla virtual race promossa dalla comunità e partita il 5 settembre per diffondere il messaggio di un mondo libero dalle dipendenze. Organizzata per la prima volta a distanza, la WeFree Run sta coinvolgendo centinaia di sportivi, associazioni, famiglie e amici che, nel rispetto delle norme anti Covid, corrono la podistica di 12 km o fanno la camminata di 3,5 km ovunque si trovino, sul tracciato che preferiscono. Fra i tanti sostenitori anche il campione di pugilato Matteo Signani, che ha corso testimoniando la propria vicinanza a San Patrignano.
La virtual race, resa possibile grazie al sostegno di Aon, Despar, Cimberio e Kappa, continua fino a sabato per i runner e fino a domenica mattina per chi opta per la camminata. Le iscrizioni sono ancora aperte sul sito run.wefree.it, con una donazione minima di 10 euro a persona a sostegno della Comunità e delle attività di prevenzione del progetto WeFree.
Ogni iscritto riceverà il kit digitale dell’evento, con materiali informativi, gadget e giochi. I partecipanti alla corsa riceveranno il link ad un modulo online da compilare con il proprio miglior tempo per la classifica finale, allegando uno screenshot o una fotografia del cronometro e contachilometri. I vincitori riceveranno un pacco con i ghiotti prodotti enogastronomici di San Patrignano e un premio dello sponsor.
Sia chi correrà, sia chi camminerà, potrà infine partecipare al contest per raccogliere il maggior numero di like e vincere la maglietta ufficiale della WeFree Run 2020. E’ sufficiente indossare qualcosa di arancione, postare la propria foto o il proprio video su Facebook usando l'hashtag #wefreerun20 e taggando @comunitasanpatrignano.
Siamo i primi a voler conoscere e valorizzare. Un intervento dell'assessore alla cultura Giampiero Piscaglia
"Gli scavi che sempre più frequentemente si realizzano nella nostra città consentono ogni volta di individuare ritrovamenti archeologici importanti, specie in una città che conserva, nel suo sottosuolo, ingenti stratificazioni storiche che l'hanno attraversata. Non è una sorpresa per nessuno che anche nel sottosuolo di piazza Malatesta, cuore della città romana e di quella medievale, siano emersi ritrovamenti, come di recente era avvenuto in Piazzetta San Martino, sotto il Cinema Fulgor, sotto il Teatro, sotto l'Istituto Leon Battista Alberti, sotto Palazzo Agolanti ex sede della Banca d'Italia, in via XX settembre appena oltre l'Arco d'Augusto, e poi con la necropoli in via Simonini e molti altri ancora. Sono proprio i lavori di rigenerazione urbana che hanno il merito di riportare alla luce ritrovamenti che altrimenti rimarrebbero sconosciuti. Quando questo avviene si ha la possibilità di studiare, documentare, fotografare, ricostruire informazioni che altrimenti non sarebbero state portate alla luce, ed è da questo momento che vengono incamerate e catalogate scientificamente le informazioni che solo gli archeologici possono fare e vengono quindi studiate tutte le possibili valorizzazioni di ciò che è venuto alla luce. Ciò che è avvenuto sotto il Teatro Galli è un esempio di valorizzazione, ma molte altre modalità possono essere pensate per valorizzare i ritrovamenti, da mostre di reperti a pubblicazioni, a possibili esposizioni in sito, a ricostruzioni virtuali, a conferenze divulgative... Tutto questo sta dentro le competenze e le funzioni assegnate alla Soprintendenza nella sua autorevole qualità di alta sorveglianza, è un lavoro scientifico, che le compete e le appartiene, quello che deve essere fatto quando avvengono ritrovamenti, non certo subordinato a un input politico.
Non si fa il bene della città e non si acquisiscono nuove conoscenze se in partenza ci si divide come si fa fra le curve di Milan Inter, Roma Lazio, è andata così tante volte come nel caso della ricostruzione del Teatro Galli, quando ci si volle dividere fra chi voleva una “colata di cemento” e chi voleva il Teatro com’era nei ricordi vissuti sulle ginocchia amorevoli del nonno. Probabilmente avrebbe vinto ugualmente il progetto all’italiana di Poletti con argomenti seri senza bisogno di creare caricature di mondi contrapposti. Noi non ci metteremo mai in difesa contro chi vuole conoscere e valorizzare quanto emerge negli scavi, siamo i primi a voler conoscere e valorizzare, parlano per noi l’esempio di come sono stati condotti gli scavi sotto il teatro Galli e quelli della Domus del chirurgo, fra gli altri. Quei ritrovamenti nella Piazza Malatesta non ci sarebbero se il progetto del Museo Fellini non li avesse messi alla luce e se il cantiere del Galli non avesse fornito indicazioni preziose anche su parte della piazza. Là, per la cronaca, dove per oltre mezzo secolo l’unica preoccupazione era trovare il posto auto e non certo la valorizzazione di beni archeologici o storici… Ciò per ribadire come la Soprintendenza, nella sua autonomia, deve compiere gli approfondimenti necessari e indicare il percorso. Al termine dei quali, come ogni volta, l’Ente pubblico assumerà le decisioni migliori per la città e la comunità, una sintesi di tutte le componenti in atto che, esempio migliore non potrebbe esserci perché lì a due passi, hanno portato alla realizzazione dell’area archeologica multimediale del Teatro Galli, nell’ambito dell’intervento per il suo restauro e rigenerazione. Non condivido la tentazione di tirare per la giacchetta la Soprintendenza che deve agire nella sua autonoma sorveglianza e tutela, e alla quale va lasciato il tempo degli approfondimenti necessari, ma se una cosa è apparsa chiara in molte delle considerazioni di ieri è che non si può dire ‘apro e poi vedo cosa c’è, in modo arbitrario, anche perché questo approccio danneggerebbe le stratificazioni esistenti. Quello che è certo è che bisognerebbe ora andare ben oltre la pur legittima diatriba fra opposte fazioni, con la inevitabile dialettica dichiaratamente politica e persino buffa (un consigliere della Lega ha proposto di rifare il parcheggio delle auto in piazza Malatesta…) e con il nervosismo, questo si evitabile, con cui è stata condotta e chiusa la Commissione consigliare di ieri. Ma la priorità è sempre di più la conoscenza e su questo, un appuntamento importante la Soprintendente Annalisa Pozzi lo ha dato alla prossima edizione del Festival del Mondo Antico, dal 14 al 17 ottobre prossimi, quando, in una serie di conferenze, verrà illustrato il patrimonio storico e archeologico derivante dagli scavi di una città come la nostra che da qualche tempo ha scavato molto, anche in seguito ai molti cantieri aperti. Cantieri per teatri, musei, piazze".
Assegnati oggi i premi nell’ambito della XII edizione del Premio Cultura d’Impresa
Giunto alla sua XII Edizione il Premio Cultura d’Impresa, promosso da UniRimini S.p.A. e Campus di Rimini, con la partnership dello studio di consulenza aziendale Skema, è un segnale concreto del fattivo collegamento esistente tra Università e Sistema Economico Locale. Undici edizioni, 88 Laureati e 84 Aziende premiate per un’iniziativa di successo nata per rafforzare il rapporto tra il mondo della formazione accademica e quello delle imprese, nella convinzione che più questo rapporto sarà stretto e sinergico e più alti saranno i benefici per i laureati, imprenditori e per l’intero tessuto sociale ed economico della nostra realtà provinciale. A questi numeri si aggiungono quelli dell’edizione 2020, la dodicesima: 9 aziende, 16 studenti. Vengono premiate Aziende che si sono distinte nell’offerta di tirocinio formativo agli studenti o per importanti collaborazioni attivate, e Laureati indicati dai referenti dei Corsi di Laurea che hanno svolto tesi di laurea particolarmente meritevoli.
La premiazione della sua dodicesima edizione, programmata per lo scorso marzo, ha subito un inevitabile stop per i mesi di lock down e le successive misure di distanziamento sociale. Per questo, la consegna delle borse di studio alle tre migliori tesi di laurea di studenti degli indirizzi di amministrazione e gestione d'impresa, economia del turismo, tourism economics and management, selezionate da un’apposita commissione, è avvenuta oggi (14 settembre) negli uffici Skema. Luogo che solo per quest’anno si è sostituito all’abituale cornice dell’aula magna del Campus di Rimini.
Tra i 9 lavori di ricerca selezionati da una commissione composta da docenti del Campus, da rappresentanti di UniRimini Spa e dello studio Skema, le tre tesi di laurea (due 110 e lode e un 110) che hanno ricevuto le borse di studio, sono state quelle di Enrico Pompignoli (primo premio), Svetlana Romaschchenko (secondo premio) e Anna Cimarosti (terzo premio). Da notare la presenza tra i premiati di una ragazza russa, nuova conferma della vocazione internazionale di Rimini e di un ateneo in grado di richiamare studenti di altri Paesi, e la stesura e discussione di due delle tre tesi in inglese.
Aggiornamento coronavirus 14 settembre
L'aggiornamento dei dati regionali sul Coronavirus registra 127 nuovi positivi, di cui 65 asintomatici da screening regionali e attività di contact tracing. 74 già in isolamento al momento del tampone. Le persone guarite salgono a 25.098 (+2). Nessun decesso. I tamponi effettuati sono stati 4.849 tamponi e oltre 2.100 i test sierologici. 28 i casi di rientro dall'estero, 5 da altre regioni. L’età media dei nuovi positivi di oggi è 40 anni. I casi attualmente attivi sono 4.064 (+125), il 95% con sintomi lievi in isolamento a casa. Dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus, in Emilia-Romagna si sono registrati 33.631 casi di positività.
Per quanto riguarda la situazione nel territorio, il maggior numero di casi si registrano nelle province di Bologna (20), Piacenza (19), Ravenna (19), Reggio Emilia (18), Modena (15) e Parma (11).
A Rimini si registrano 7 nuovi casi, di cui 2 pazienti di sesso maschile e 5 di sesso femminile, 4 con sintomi e 3 asintomatici, tutti in isolamento domiciliarei; 3 pazienti sono stati individuati per rientro dall'estero (Albania); 2 per sintomi e 2 per contact tracing famigliare. Non si sono registrate guargioni
Venerdì 18 al via il SI FEST di Savignano
Il 18 settembre, avvio per la 29^ edizione del SI FEST Festival di Fotografia di Savignano. Le mostre saranno visitabili per l’intero week end e successivamente anche il 26.27 settembre e il 3.4 ottobre. Ingresso gratuito a tutte le mostre e gli eventi in programma.
“In questa fase storica in cui il vissuto di ognuno di noi e il nostro stesso modo di vedere il mondo entrano in discussione, il SI FEST 2020 si reinventa, senza paura di rimettersi in gioco, o meglio, in piazza. Dopo mesi in cui ci siamo forzatamente rifugiati nella sfera privata, il SI FEST riavvolge il filo dei ricordi e si riappropria della sua natura originaria, rivendicando con orgoglio quella vocazione comunitaria che l’ha visto nascere nel 1992 come Portfolio in piazza - Incontri di fotografi e di fotografia.
Il Festival di Fotografia di Savignano sul Rubicone si dimostra nuovamente capace di vivere la città nei suoi spazi pubblici: le piazze, le strade del centro, fino alle vetrine dei negozi. A fronte di tutte le difficoltà, il SI FEST ha comunque scelto di esserci, anche online, ma soprattutto onsite, aprendo gratuitamente tutti gli eventi e le mostre in programma, e adeguandosi alle nuove esigenze di sicurezza che impongono un ripensamento radicale degli eventi pubblici.”
Su sito del festivale le news e il programma completo (https://www.sifest.it/)
Iscritti in crescita per licei e professionali. In calo gli istituti tecnici
L'Osservatorio economico della Camera di commercio della Romagna – Forlì-Cesena e Rimini ha diffuso oggi i dati sull’Istruzione primaria e secondaria in Romagna relativi all’anno scolastico 2019/2020.
I dati rilevano un incremento, rispetto all’a.s. 2018/2019, del numero degli iscritti, con un aumento della popolazione scolastica nelle scuole statali e una diminuzione nelle scuole paritarie, da un lato, e un incremento nelle scuole secondarie (primo e secondo grado) a cui segue un calo in quelle primarie, dall’altro; stessa dinamica anche nel medio periodo (rispetto cioè all’a.s. 2014-2015). Sono cresciute, in termini annui, le iscrizioni nei licei e negli istituti professionali mentre sono risultate stabili negli istituti tecnici.
Nel territorio Romagna (Forlì-Cesena e Rimini), nell’anno scolastico 2019/2020, la popolazione scolastica, ovvero gli iscritti nelle 302 scuole (273 statali e 29 paritarie), ammonta a 88.976 unità, con un incremento, rispetto all’a.s. 2018/2019, dello 0,5%: +0,5% per gli iscritti nelle scuole statali (dove si concentra ben il 95,7% della popolazione scolastica) e -0,6% per quelli iscritti nelle scuole paritarie. Crescita anche nel medio periodo (a.s. 2014-2015): +3,0% (+3,4% nelle scuole statali, -5,3% in quelle paritarie).
Il 37,5% della popolazione scolastica frequenta le scuole primarie (-1,6% di iscrizioni annue e -2,3% nel medio periodo), il 24,0% le scuole secondarie di primo grado (rispettivamente, +1,8 e +6,8%) e il 38,5% le scuole secondarie di secondo grado o superiori (nell’ordine, +1,8% e +6,2%); in crescita annua le iscrizioni nei licei (+2,6%, 45,1% del totale degli iscritti alle scuole superiori) e negli istituti professionali (+2,9%, 21,7%), mentre sostanzialmente stabili risultano quelle negli istituti tecnici (-0,1%, 33,2%).
“Oggi la scuola riprende, in quasi tutte le Regioni italiane; un inizio anno scolastico, inusuale, difficile e sfidante. Il Covid, purtroppo, ha colpito prima e più di tutto il mondo della scuola e in questo modo ha colpito sia società, sia economia - dichiara Alberto Zambianchi, presidente della Camera di commercio della Romagna -. I dati dell’ultimo anno scolastico, rappresentano una fotografia del sistema scolastico delle nostre province e vengono a confermare l’importanza dell’istruzione, tema da sempre ritenuto strategico dalla Camera della Romagna, per il suo ruolo fondamentale nei processi di inclusione e coesione e, soprattutto, nella formazione e nello sviluppo delle conoscenze e delle competenze. Non ultimo tutto il tema altrettanto strategico delle vocazioni imprenditoriali. Il rilascio dei dati è il frutto del lavoro di monitoraggio delle tematiche di maggior impatto sullo sviluppo del territorio che l’Osservatorio della Camera realizza quotidianamente, che, in questo caso specifico, è reso possibile solo grazie alla collaborazione degli Uffici scolastici provinciali, a cui va un meritato riconoscimento per il lavoro svolto. L’abbiamo anche sperimentato, recentemente, con l’alternanza scuola lavoro, che è un caso concreto di collaborazione istituzionale, con benefici per i giovani, per le loro famiglie e per il Territorio.”
In provincia di Rimini sono presenti 139 scuole di ogni ordine e grado (120 statali e 19 paritarie) con una popolazione scolastica complessiva (bambini, ragazzi e adulti delle scuole serali) di 40.992 iscritti nell’anno scolastico 2019/2020; rispetto all’a.s. ‘18/’19 le iscrizioni sono aumentate dello 0,4%, con un +0,5% nelle scuole statali (93,6% del totale degli alunni) e -0,5% nelle scuole paritarie, mentre nel medio periodo (a.s. 2014-2015) si assiste ad una crescita del 2,0% (+2,9% nelle statali, -8,6% in quelle paritarie).
Il 38,0% della popolazione scolastica frequenta le scuole primarie, il 24,2% le scuole secondarie di primo grado e il 37,8% le scuole secondarie di secondo grado o superiori. Il 47,0% degli studenti delle scuole superiori è iscritto ai licei, il 28,8% agli istituti tecnici e il restante 24,2% agli istituti professionali; tra queste, le principali scuole per numero di iscritti risultano, nell’ordine: liceo scientifico (20,9% del totale degli iscritti nelle scuole superiori), istituto professionale per i servizi alberghieri e ristorazione (12,8%), istituto tecnico industriale (12,7%), istituto tecnico commerciale (10,7%), liceo delle scienze umane (8,0%), e liceo linguistico (7,8%).
In termini di confronto temporale, le iscrizioni nelle scuole primarie calano sia rispetto all’anno precedente (-1,8%) sia nel medio periodo (-2,2%) mentre aumentano nelle scuole secondarie di primo grado (+1,7% sul ‘18/’19, +6,2% sul 2014/2015) e in quelle di secondo grado (rispettivamente, +1,8% e +4,0%); riguardo a quest’ultime, si assiste ad una buona crescita annua dei licei (+5,0%), crescita che caratterizza, in forma lieve, anche gli istituti professionali (+0,3%), mentre calano le iscrizioni negli istituti tecnici (-1,7%).
Il crollo delle esportazioni colpisce soprattutto la moda. I dati Istat
Secondo i dati Istat delle esportazioni delle regioni italiane, analizzati da Unioncamere Emilia-Romagna, tra aprile e giugno si è avuto l’atteso calo dovuto alle conseguenze della pandemia. Le esportazioni emiliano-romagnole sono risultate pari a poco più di 12.709 milioni di euro, equivalente al 14,3 per cento dell’export nazionale, e hanno fatto segnare una caduta del 25,3 per cento. La flessione ha dimensione importante, tuttavia più contenuta rispetto alla diminuzione del 28,9 per cento riferita al secondo trimestre del 2009.
Tra le regioni grandi esportatrici e maggiormente colpite dalla pandemia, l’andamento non è affatto omogeneo. L’Emilia-Romagna ha contenuto i danni al meglio e si conferma la seconda regione italiana per quota dell’export nazionale. Le esportazioni si sono ridotte del 25,4 per cento nel Veneto e del 26,9 per cento in Lombardia, ma quelle della Toscana hanno perso il 29,2 per cento e quelle del Piemonte addirittura il 35,7 per cento.
I settori. Il segno rosso ha prevalso in tutti i comparti principali, con la sola eccezione dell’agricoltura (+0,6 per cento). Il principale contributo negativo è venuto dalle esportazioni del settore dei macchinari e apparecchiature meccaniche (-26,7 per cento), seguito dai mezzi di trasporto, che perde il 36,0 per cento delle vendite estere, e delle industrie della moda (-41,4 per cento), che registrano la più ampia caduta tra i settori considerati. Tengono meglio le esportazioni dell’aggregato delle altre industrie manifatturiere (-15,0 per cento), grazie all’industria del tabacco (-8,9 per cento), quelle delle industrie chimica, farmaceutica e delle materie plastiche (-8,0 per cento), sostenute da un incremento del 34,2 per cento dei farmaceutici avvantaggiatisi della pandemia, e quelle dell’industria alimentare e delle bevande (-6,0 per cento).
Le destinazioni. I risultati ottenuti sui diversi mercati hanno risentito della differente composizione dell’export regionale e della diversa intensitàcon la quale il Covid19 ha colpito ogni singolo paese. La caduta dell’export regionale si colloca attorno a un quarto, leggermente minore sui mercati dell’Oceania (-23,8 per cento) ed europei (-24,0 per cento), più ampia sui mercati asiatici (-26,9 per cento), americani (-27,9 per cento) e dell’Africa (-31,1 per cento).
In ognuna di queste macroaree, la minore intensità della pandemia in alcuni Paesi ha però permesso di contenere la discesa.
In merito singoli Paesi si segnalano la più contenuta flessione in Germania (-15,6 per cento), quella quasi doppia in Francia (-28,4 per cento) e Spagna (-28,2 per cento) e quella più che doppia nel Regno Unito (-37,4 per cento). È risultato pesante il mercato statunitense (-28,0 per cento), ma meglio sostenuto quello canadese (-14,9 per cento). La diminuzione dell’export è stata più marcata in Cina (-24,7 per cento), ma più contenuta in Giappone (-17,8 per cento).
Referendum. Più della rappresentanza, il rappresentato
Leggendo attentamente i lavori della Costituente sulla determinazione del numero dei deputati del Parlamento della Repubblica, notiamo che il dibattito si muoveva sugli stessi identici criteri di oggi:
- della rappresentanza (sostenuta soprattutto dal PCI che voleva 1 deputato su 80.000 cittadini; in forma più moderata dalla DC, che per accogliere istanze minimaliste, provenienti dal centro laico liberale e repubblicano, si era orientata verso un rapporto 1 a 100);
- dell’efficacia dell’esercizio legislativo (promosso soprattutto dall’On. Conti del Partito dell’unione democratica nazionale - alias Partito liberale, si legga Einaudi - Relatore dei lavori della II^ Commissione, che riteneva improponibile una camera superiore a 450 deputati e per questo avanzava l’ipotesi di una proporzione di 1 a 150.000 riducibile a non meno di 1 a 125.000);
- del contenimento della spesa pubblica (all’epoca 1 miliardo su 600 miliardi di esercizio).
Nel dibattito del 1946-1947 non si trovano però tutte le imbecillità dietrologiche che oggi da ogni parte i parlamentari si tirano addosso: chi grida alla sospensione della democrazia; chi sogna di moralizzare il parlamento con la matematica o addirittura risanare il debito pubblico.
I toni della Costituente erano razionali e i problemi decisivi restavano due: rappresentanza ed efficacia. Ad essi si attennero i Costituenti, e il 23 settembre 1947, esattamente 73 anni prima del Referendum prossimo, passò la proposta del rapporto 1 a 80.000 come volle Togliatti. Il Presidente della Commissione, On. Terracini (PCI), con una certa astuzia seppe guidare l’iter legislativo sino alla discussione in Costituente.
Detto ciò, bisogna sottolineare che l’Assemblea aveva come unici modelli nazionali di rappresentanza e di efficacia il Parlamento del Regno (variabile tra 443 e 535 deputati) e se stessa (con 556 costituenti).
Naturalmente, tali numeri di rappresentanti erano giustificati dalle imprese di unificare l’Italia nel 1861 e di darle la prima Costituzione repubblicana nel 1948. Lasciando stare il Regno, a cui i costituenti non erano tenuti ad ispirarsi per ovvi motivi, occorreva commisurare la rappresentanza del Parlamento repubblicano a quella della Costituente, tenendo d’occhio anche le costituzioni europee e d’oltre mare: in particolare, come ebbe a dire l’On. Nitti, per l’efficacia occorreva guardare la stabilità (ad esempio in Francia in 150 anni si erano avute 13 costituzioni mentre gli Usa avevano mantenuto la medesima Carta). E qui i paragoni tornano anche oggi.
Tuttavia, il dibattito della II^ Commissione sembra presupporre la convinzione che oltre il numero della Costituente (556) non fosse pensabile andare. Anzi, il primo ordine del giorno fu caratterizzato dalla proposta di una riduzione del numero dei deputati rispetto il numero di costituenti. Proprio perché si era coscienti dell’esclusività del momento storico in corso: per mettere in piedi una Repubblica, per di più uscita dal tunnel fascista, serviva la più ampia rappresentanza. Il Relatore, On. Conti, proponeva una riduzione radicale. Sottolineo che si trattava di un’idea di Einaudi,il principale statista italiano che avrebbe portato l’Italia verso il mercato libero e la democrazia. Einaudi sosteneva un ragionevole punto di vista per equilibrare rappresentanza ed efficacia. Il futuro Presidente era evidentemente preoccupato che il numero dei deputati potesse raggiungere il numero dei costituenti, perché il fatto avrebbe reso difficile l’esercizio legislativo, come ebbe ad avvertire nella sessione del 18 settembre 1946:
“Einaudi è d'accordo con l'onorevole Conti sulla opportunità di ridurre il numero dei membri, sia della prima Camera che della seconda, anche per ragioni, che crede evidenti, di tecnica legislativa. Difatti, quanto più è grande il numero dei componenti un'Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all'opera legislativa che le è demandata”.
Comunque forse nessuno avrebbe mai ritenuto di eleggere 630 deputati di oggi (1 deputato su 95.000 cittadini), anche chi, applicando il criterio del rapporto 1 a 80.000, si fosse trovato con la demografia di 60 milioni di cittadini odierni, mentre all’epoca erano 45 milioni. In effetti, anche il criterio del rapporto percentuale era messo in discussione, dal momento che evidentemente non potrebbe essere applicata la stessa percentuale su una popolazione di 200 milioni di cittadini: gli Usa avrebbero un Congresso di 2.500 deputati, il che è palesemente irreale.
Che dire? La discussione fu sana e leale, nessuno lanciò anatemi a nessuno, alla fine la Costituente scelse, e come ogni scelta fu legata a tanti fattori, tra i quali l’uscita da una dittatura. Per questo sappiamo che il voto della maggioranza non va mai considerato una verità, tantomeno un dogma, ma una ragionevole deliberazione, che viene presa in un determinato contesto storico e geografico, passibile di mutevolezza.
Si possono tuttavia ricavare due motivazioni fondamentali dei partiti sensibili alla massima rappresentanza. DC e PCI erano i partiti popolari che radicavano la propria presenza sul territorio e intendevano preservarla. E’ anche vero che avevano finalità tali da rendere secondario il tema dell’efficacia della tecnica legislativa - di cui oggi siamo invece principalmente e giustamente preoccupati - perché il PCI voleva costituire una Repubblica più funzionale alla transizione verso democrazie proletarie che la DC intendeva impedire.
Evidentemente ne è passata di acqua sotto i ponti tra il 1948 e il 2020. E’ vero che i tempi sono altrettanto difficili del primo dopoguerra. Tuttavia, il paesaggio è senz’altro irriconoscibile e i numeri non hanno più gli stessi significati, soprattutto in un mondo deterritorializzato dall’e-commerce, dove è sparito il mondo contadino e decisamente trasformato il mondo operaio nella piena crisi della terza rivoluzione industriale. Dal ’48 al ‘90 un parlamentare impiegava qualche settimana per confrontarsi con il proprio elettorato, oggi si potrebbe fare in qualche ora in video call (sì lo so, rimpiango anche io le sale piene di fumo in cui discutevamo a ore piccole di politica con capi partito, consiglieri comunali, provinciali, deputati, senatori, europarlamentari; ma purtroppo oggi viaggiamo sul fumo informatico e così deve essere). E uso volutamente il congiuntivo “potrebbe”, cosciente che il problema della rappresentanza oggi sta molto meno nelle proporzioni che nell’assenza di volontà del rappresentato di farsi rappresentare. Oggi la radice della crisi non è che i parlamentari vengono imposti dall’alto (ammesso che nel passato non fosse così nella maggior parte dei casi), questo ne è solo il sintomo. Il vero problema è il nichilismo sociale, non esiste più una volontà del popolo; personalità carismatiche equilibrate e corpi intermedi sono stati massacrati, dissolti da un mercato di individui fluttuanti sull’onda del prurito pubblicitario. E non incolpiamo Berlusconi per aver creato un partito senza partito, lui ha semplicemente riempito il vuoto dopo tangentopoli; poteva seguire solo quella strada e doveva farlo in fretta, come può fare un imprenditore e non un politico. Perché tutti gli altri l’hanno imitato? Perché è crollato il mondo dei due popoli, quello cattolico e quello socialista, come ben profetizzò Pasolini in Salò.
Perciò sabato prossimo non è un problema di rappresentanza, non ci si pigli in giro dicendo che solo 1/90.000 salverà la democrazia. Una affermazione del genere serve solo a disconoscere l’avversario non a superarlo. Fissarsi così su una percentuale di 73 anni fa, in un mondo della comunicazione in cui tutto è cambiato, può puzzare di conservatorismo e paura di perdere il posto. Una eventuale vittoria del no non esclude l’onda montante della disaffezione per i partiti che lo dovessero sostenere. E forse proprio per questo nessuno si azzarda a sbilanciarsi, e lascia ampia libertà, senza bisogno di qualificarla con il complemento di specificazione “di coscienza”, ma semplicemente mi limiterei a dire “di opinione”. Poi diciamoci la verità: quanti dei circa mille parlamentari di oggi hanno un legame con gli elettori?
Pertanto ridurre il numero è un’ipotesi del tutto legittima e senza rischi di peronismo grillino - non si faccia i populisti di turno - così come legittimo è lasciare tutto come sta. Anche se non si comprende allora perché in ripetute occasioni si siano auspicate riduzioni e rinnovamenti. Diminuiti i parlamentari, poi potremo sempre fare anche le riforme funzionali: quelle dell’iter legislativo, del sistema elettorale e compagnia bella. Oggi 1000 parlamentari appaiono agli elettori lo stagno dello status quo.
Il punto vero comunque, con 300 o con 600 deputati, resterà quello di riportare a 1 il nulla dei corpi intermedi e della persona per la politica, altrimenti 0/80.000 o 0/200.000 darà lo stesso risultato di oggi, vale a dire 0. Troppo poco per chi merita di tornare ad essere un popolo.
Alfiero Mariotti
Questa sera il “fascino dell’umano” di AVSI, attraverso la musica
È per questa sera, alle ore 21 al Novelli, l’evento che permetterà di entrare in sintonia con il mondo, grazie al sound della Bound for Glory, alle voci del “Corone” e di Amarcanto e alle parole di Maria Ricci, testimonial di AVSI, la Non Profit che, con fatti e azioni concrete, incontra le situazioni più povere del mondo trasformandole in opportunità di riscatto.
Una serata speciale, dove grande protagonista sarà la musica, unita alla solidarietà, secondo la migliore tradizione dei grandi concerti rock. Prima della musica, ad introdurre, vi saranno le brevi ma intense parole di Maria Ricci. L’abbiamo chiamata per capire la sua funzione in AVSI.
“Sono responsabile del Fundraising, e più precisamente della raccolta di fondi privati. Ovvero proprio quello che accadrà al Novelli questa sera, una delle tante serate che in giro per l’Italia garantiscono ad AVSI fondi particolarmente importanti”.
Perché “particolarmente”?
“I fondi privati sono doppiamente importanti per noi, perché garantiscono una libertà di utilizzo che i fondi istituzionali non hanno. Ad esempio portare bambini abituati alla povertà dei loro borghi e capanne, a visitare luoghi di bellezza, come le montagne o il mare, non è considerato importante. Invece per noi la bellezza è un punto decisivo da cui ripartire. Noi possiamo far conoscere ai ragazzi la bellezza proprio grazie ai vostri fondi. E loro rifioriscono.”
Maria, come è nata la scelta di fare di AVSI un lavoro, di farne la tua vita?
“Non conoscevo AVSI, né il mondo da cui era nata. In casa non se ne parlava. Durante i miei studi sulla cooperazione internazionale, ebbi l’occasione di un viaggio in Romania presso le strutture seguite da AVSI. Tra le tante realtà della cooperazione che ho conosciuto, AVSI mi ha colpito. Subito ho visto qualcosa di diverso”.
Che cosa?
“I rapporti tra i volontari, il relazionarsi con me e con le persone che usufruivano dei servizi. Erano diversi dal solito. Lo capivo bene su di me. Io non ero guardata per quello che davo ma perché c’ero. E questo valeva per tutti. Vi era una attenzione insolita alle persone. Questo mi ha spinto poi a lavorare per loro come volontaria ed infine è diventato il mio lavoro. Oggi, da dentro, trovo una forte conferma di quella prima intuizione”.
Qual è il bisogno fondamentale che oggi AVSI incontra nelle varie zone del mondo?
“Noi lavoriamo in contesti dove il bisogno esplode in maniera lancinante. Basti pensare alla Siria, all’Iraq o all’Uganda. Ma c’è un tratto comune in ogni luogo e per tutti coloro che incontriamo. È il bisogno di essere trattati da uomini, di entrare in relazione. Nessuno si accontenta di un’assistenza. Il bisogno è che qualcuno sia lì per te, unicamente per te. Potremmo dire che è il bisogno di essere umani, perché questo è ciò di cui tutti abbiamo bisogno. Per questo AVSI non offre solo servizi, non risponde solo al bisogno immediato (pur base del nostro agire) ma diamo vita a rapporti che fanno crescere. Con noi studiano 24mila bambini l’anno; da quando siamo nati, hanno attraversato le nostre scuole in 160mila. Ma il dato più importante è che vediamo i ragazzi crescere. Desiderano proseguire gli studi ed andare in università (cosa per nulla scontata in quei luoghi); molti di loro tornano per lavorare in AVSI. In una parola sono ragazzi che rifioriscono, che prendono consapevolezza che la loro vita ha un valore. Nella High School Luigi Giussani dell’Uganda questo è evidente”.
Parlacene! È la scuola che stasera sosterremo.
“La prima cosa da sottolineare è che i nostri insegnanti, compresi i presidi, sono ugandesi. Abbiamo corsi di formazione che li preparano ad un metodo per loro tutto nuovo. Si passa da un insegnamento mnemonico e connotato da violenze sui bambini, talvolta molto brutali, a tutt’altro. I bambini e i ragazzi da noi sono al centro, con una divisa bella, in aule pulite e con docenti che li stimano. Per i nostri studenti essere a scuola è un grande dono. Un esempio: da noi che gli studenti pongano domande (e sono pieni di domande!) è importante. È una risorsa. Nelle altre scuole ugandesi è disdicevole, una vergogna. Invece noi vogliamo dar voce alla loro domanda”.
Qual è il valore culturale, o anche politico, di quanto state facendo?
Ti rispondo per punti. 1) il nostro lavoro è prima di tutto occasione di conoscenza di quanto realmente accade in quei paesi. Su tante cose in Occidente si giudica senza conoscere. 2) Portare al centro la persona è costruire una società nuova, diversa, che tende a superare le contraddizioni esistenti. Lo dico non in astratto, ma nella concretezza della guerra quotidiana contro l’indifferenza, contro i muri artificiosi. Noi viviamo sulla pelle quella frase che fu titolo di un meeting: l’altro è un bene per me. 3) La dignità della persona non è data dal nostro lavoro, ma è già nelle persone che incontriamo. Noi non facciamo altro che riconoscerla. 4) Nasce la possibilità di capire meglio la nostra storia recente. Si prendano le migrazioni. Noi interveniamo su tutte le fasi. Sento in Italia dibattere solo sulla fase terminale (l’arrivo, lo sbarco). Dietro a quella c’è un mondo, che va capito e su cui è possibile intervenire.
Infine, perché dunque ci chiederai di aiutare AVSI?
Perché AVSI è la possibilità di costruire un percorso pienamente umano, denso di fascino, capace di aprire una speranza in chi è aiutato ma anche in chi aiuta, anche solo semplicemente con un dono.
(foto di Mattia Marzorati, 2018)
Il ricordo che non oblia
È singolare come sia facile al contempo celebrare il tema della memoria e del ricordo, e cadere nel più profondo oblio delle ragioni per cui meritano di esistere giornate di questo genere. Oggi, a lezione, uno studente mi chiede: “ma perché ricordare queste persone, questi eventi?”. Domanda tutt’altro che banale, anche alla luce di quel che si vede ripetersi attorno a noi, tra scontri di vecchie ideologie, polemiche pretestuose, parzialità terribili nel ricordare i drammi del nostro tempo.
Per anni abbiamo giustamente celebrato nella Giornata della Memoria (27 gennaio) la tragedia dell’Olocausto (unica nel suo genere), inorridendo per le violenze razziali perpetrate dai Nazisti. Tuttavia troppo spesso questa celebrazione ha avuto un sapore strano, un retrogusto d’artificiosa parzialità, una sorta di occulta retorica falsante che rendeva quel momento non pienamente autentico. Con l’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, - giornata che cade il 10 febbraio - si è tentato di porre un parziale rimedio a quell’oblio occulto. Con il ricordo dei caduti nelle foibe e dell’esodo degli italiani del confine orientale, si è finalmente guardato qualcosa che era sotto casa, vicino, prossimo, e dunque ancor più scandalosamente taciuto.
Ma per rispondere alla domanda del nostro studente, occorre fare uno sforzo ulteriore.
Se andiamo a vedere i grandi drammi del Novecento, troveremo un tratto comune, che ci aiuterà in questa ricerca.
Sforzandoci un po’ in questo esercizio di memoria, troveremo ad inizi Novecento la tragedia che il giurista Raphael Lemkin, colui che poi nel ’44 coniò il termine genocidio, intese sottoporre all’attenzione della stessa Società delle Nazioni. Si tratta del genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi nel 1915 (si parla di circa un milione e mezzo di morti). Ignoto per il grande pubblico e nelle scuole fino a una quindicina di anni fa, tutt’oggi è ben poco conosciuto. Per non parlare della tragedia dell’ Holodomor, ovvero la morte procurata per fame da Stalin agli Ucraini, notoriamente ostili ai principi della rivoluzione, all’interno del contesto della grande carestia ad inizio degli anni ’30 in URSS. Anche questo evento rientra, a parere di Lemkin, nel novero dei genocidi.
Proseguendo questa carrellata esemplificativa, incontriamo la tragedia di Katyn, dove l’URSS tentò di azzerare la coscienza nazionale polacca, decapitandola delle sue classi dirigenti. Ben 22mila ufficiali dell’esercito, a freddo e senza motivazione bellica, furono uccisi e sepolti in fosse comuni presso Katyn. Malgrado da subito fosse chiara la cronologia dell’evento, attestato da rilievi degli operatori della Croce rossa, e dunque la responsabilità dei russi allora occupanti (1940), gli stessi riuscirono ad accreditare fino agli anni ‘90 la tesi della colpevolezza dei nazisti, giunti 3 anni dopo in quell’area e scopritori delle fosse.
Possiamo poi prendere in considerazione i Laogai, i lager cinesi, tuttora attivi e ben poco noti salvo ai lettori più attenti (il test sui miei studenti ha dato risultati pari a zero per tutto quanto sopra citato), di cui, qui a Rimini, dieci anni fa, potemmo ascoltare una descrizione da un testimone diretto, Harry Wu, ospite del Meeting.
Ma gli stessi Lager russi, fino agli anni ’80 erano un tabù per l’opinione pubblica di massa.
Mi permetto inoltre di tornare a inizio secolo, viaggiando al di là dell’oceano, per ricordare la guerra cristiada, combattuta dal popolo messicano contro la laicizzazione forzata dei governi rivoluzionari di ispirazione massonica.
Il tratto comune di queste esperienze, pur così diverse, è chiaro.
Pur nella loro estrema differenza, queste esemplificazioni (qui necessariamente riportate per cenno e dunque senza i tanti dettagli e distinguo che sarebbero fondamentali per una più approfondita descrizione) possiedono un tratto comune che ci rilancia fortemente sull’oggi e che rende ragione alla preziosa domanda del mio studente, “ma poi perché oggi ricordare questi eventi?”.
Si tratta di un elemento comune che eccede - per spregiudicatezza, dimensioni, brutalità - ogni altra ragione (di potere, di carattere economico o politico, o che faccia capo a violenze e vendette). In tutti questi casi assistiamo al tentativo di costruire una società sulla base di un programma politico che azzera l’uomo reale, la società esistente, il popolo nella sua concreta espressione effettiva. In nome della razza da ripristinare nella sua purezza, in nome della giustizia sociale, in nome di un astratto progresso frutto della pura ragione o in nome di un nazionalismo di maniera, troviamo regimi che si sentono legittimati - e dunque zelanti nell’esercizio del loro potere - a ridefinire i connotati di un popolo, eliminando chi non rientra in quanto già definito.
Oggi occorre tornare a ricordare quegli eventi, perché se ne riconosca l’origine comune, quel vizio della contemporaneità che si condensa nel cedimento alle ideologie portatrici di una tentazione totalitaria. Di contro si tratta di comprendere quale sia l’unico valore che possiamo affermare nella storia, attraverso un’azione politica autenticamente costruttiva: la libertà dell’uomo. Quell’uomo concreto, in carne ed ossa, portatore di limiti ma anche di risorse preziose (talora imprevedibili), e che tuttora è dimenticato, cacciato nell’oblio a causa di slogan, proclami, parole d’ordine, magari foriere di voti ma dimentiche di chi è il reale protagonista delle azioni che proclamiamo.
In fondo è una terribile leggerezza che dobbiamo lasciarci alle spalle e la forza drammatica che alcuni eventi passati possiedono può risvegliarci e farci accorgere che non è possibile accontentarsi di “un gioco tattile sulla superficie delle cose” (Nietzsche), specie se si parla della cosa pubblica e dell’interesse di milioni di persone.
La drammatica vicenda degli esuli italiani del confine orientale, dovrebbe farci ricordare che erano uomini in fuga non solo da vendette legate al conflitto, ma da un regime che mostrava tratti disumani, uomini non accolti adeguatamente dalla stessa loro nazione, spesso in nome di un principio ideologico analogo a quello che fuggivano. Una ostilità ideologica che oggi si ripropone in forme nuove e secondo nuovi slogan. Una “leggerezza” politica che dobbiamo assolutamente sconfiggere, affinché si affermi l’unica risorsa tanto del nostro come di ogni tempo: l’uomo, quale io unico e irripetibile, mai riducibile a categoria sociologica.
Emanuele Polverelli