Una storia di popolo. I primi 50 anni di CL a Rimini nel libro di Valerio Lessi
Alcune date in effetti parlano da sole. Il 24 luglio 1962 alcuni ragazzi di Rimini Studenti, seguiti da don Giancarlo Ugolini, incontrano a San Leo alcuni coetanei di Gioventù Studentesca in vacanza sulla Riviera. il 4 ottobre, a Villa Verde, nel cuore di Marina Centro a Rimini, si svolge la prima giornata di inizio della neonata GS riminese.
Erano trascorsi nemmeno due mesi e mezzo dal primo casuale incontro e già i riminesi, presi da quella proposta, si lanciano nella missione, annunciano ai loro coetanei l’avvenimento in cui si sono imbattuti. Nelle scuole, che allora cominciavano il 1 ottobre, per tre giorni passano di mano in mano buste di color arancione con uno strano invito.
C’è forte coincidenza temporale fra l’incontro, fra l’annuncio ricevuto, e il primo gesto missionario. Tutto questa è avvenuto in un’epoca assolutamente analogica, dove non c’erano smartphone, o posta elettronica, i messaggi si diffondevano esclusivamente one to one, da persona a persona. Tutto ciò induce a pensare che la missione, la comunicazione ad altri dell’avvenimento incontrato, faccia parte del Dna del carisma di don Giussani, nessuno fra quei ragazzi ha pensato che “prima dobbiamo crescere e poi ci proponiamo agli altri”, tanto meno questo fu il pensiero di don Giancarlo Ugolini, che di quella estate ricordava soprattutto il dinamismo missionario di Paola Fabbri, una ragazzina di 15 anni che trascorreva i mesi di vacanza per mantenere i contatti fra i giessini milanesi in vacanza e fra questi e i giovani riminesi.
Nessuno avrebbe scommesso qualcosa su quel gruppo di ragazzi radunati a Villa Verde per un cammino di educazione alla fede. Cosa mai poteva nascere?
Sono considerazioni e domande che nascono leggendo il libro di Valerio Lessi, edito da Pazzini, Una storia di popolo. I primi 50 anni di CL a Rimini. Il volume sarà presentato, nell’ambito della rassegna Libri da queste parti, giovedì 30 gennaio alle ore 18 nella Sala della Cineteca, alla Biblioteca Gambalunga. A dialogare con l’autore sui contenuti sul libro ci sarà lo scrittore Piero Meldini. L’autore ha voluto esplicitamente mettersi a confronto con un rappresentante della Rimini laica perché crede che la storia di CL a Rimini non riguardi solo i ciellini, o il resto del mondo cattolico, ma riguardi la città nel suo insieme, comprensiva di tutte le diversità che l’arricchiscono.
C’è un legame storico, originario, fra la città di Rimini e Comunione e Liberazione. Don Luigi Giussani (1922-2005) ha spesso raccontato che l’idea di dedicarsi ad una presenza cristiana fra gli studenti gli venne durante un viaggio in treno da Milano a Rimini, quando incontrò un gruppo di giovani paurosamente ignorante sul cristianesimo. Da allora la sa vita è stata dedicata all’educazione di uomini che nella loro vita affermassero il criterio di Cristo. E la città adriatica ha sempre risposto in modo generoso ed “esagerato” al messaggio del sacerdote milanese: dal rapido e fiorente sviluppo di Gioventù Studentesca alla crisi drammatica e devastante del Sessantotto; dalla ripresa a Torello insieme a don Giussani alla crescita di una comunità vivace da cui sono nati il Meeting e numerose altre opere in campo educativo, culturale, sociale ed economico.
Nell’Introduzione l’autore sostiene che senza la presenza di CL la storia di Rimini negli ultimi 50 anni sarebbe stata diversa. Non è un giudizio di valore, è una semplice constatazione sull’incidenza che gli uomini e le opere di CL hanno avuto su Rimini.
Sfogliando le pagine del volume (dotato anche di una ricca documentazione fotografica), si nota che l’autore ha voluto sottolineare come i riminesi abbiano molto assorbito un'altra dimensione del carisma di Giussani, quella culturale.
Già in un convegno dell’allora Gioventù Studentesca quei ragazzi avevano tentato un giudizio sul turismo (e non c’è bisogno di ricordare cosa significa la parola turismo a Rimini) a partire, questo l’aspetto interessante, dalla propria esperienza.
«Nell’estate del 1962, alcuni studenti cattolici milanesi, che si trovavano in vacanza sulla nostra riviera, esprimevano sensibilmente la loro unità incontrandosi ogni settimana a Rimini, per riflettere insieme su alcuni motivi della loro esperienza estiva. Li abbiamo incontrati, quasi per caso, durante uno dei loro incontri. È nata un’amicizia che dura ancora, ma soprattutto è nata così anche a Rimini la comunità cristiana tra gli studenti. E in fondo non erano che semplici turisti. (…) Occasione di dialogo, di incontro fra persone lontane e diverse, il turismo può restare un fatto casuale e momentaneo, come accade quasi sempre, ma può diventare un fatto decisivo per la vita, come nel nostro caso. (…) La seconda caratteristica peculiare del turismo è il fatto culturale: l’incontro con una città o con un monumento, o un’opera d’arte, qualcosa che esprima comunque una sua tradizione culturale e un significato umano ben precisi».
Quindi Rimini città in cui è possibile incontrare persone, Rimini città in cui si incontrano culture diverse, monumenti, arte, ecc.
Quei ragazzi di 60 anni fa avevano avuto le stesse intuizioni che poi sono state rilanciate negli anni Duemila dal Piano Strategico.
Rimini è la città dove la bufera del Sessantotto ha pressoché annientato completamente la presenza di GS. Nell’estate di quell’anno si ritrovarono appena in una dozzina con don Giussani a Torello, in Valmarecchia, per riprendere il cammino comune. Eppure già nell’estate del 1969, in piazza Tripoli, nel cuore della Rimini turistica, fa la sua comparsa uno strano “negozio” che in realtà non è un negozio, è la sede del Centro Incontri Jaca Book. Vuole essere un punto di incontro al mare per incrociare turisti e riminesi intorno ad una proposta culturale.
Nel volantino che pubblicizza la nascita del Centro si legge: «La Chiesa è l’ipotesi di partenza: abbiamo scelto questo lavoro per testimoniare che l’avvenimento cristiano è una possibilità di vita per ciascuno».
Ecco una importante conferma del fatto che la dimensione culturale del carisma di don Giussani abbia attecchito nell’animo degli aderenti riminesi al movimento. In fondo, le ragioni che portarono alla nascita di quel centro culturale nel cuore della Rimini turistica sono le stesse che portarono una dozzina d’anni dopo alla nascita del Meeting.
Le storie narrate nel libro di Lessi sono molto utili per capire il radicamento di CL a Rimini. Un radicamento a cui non è estranea la presenza assidua d Giussani a Rimini negli anni 1968-1970, quelli in cui, come documenta un altro libro, Una rivoluzione di sé (Rizzoli), si formano gli elementi fondamentali del carisma di don Giussani. E Rimini, come documenta il libro di Lessi, non è estranea a quel percorso.
Per chi non vota e per chi invece voterà
Una considerazione per iniziare: l’astensione una volta faceva paura ai politici, ora, paradossalmente, fa il loro gioco.
Fino a quando infatti la politica ha conservato un valore di rappresentanza – espressione dunque di un qualche legame: valoriale, ideologico o territoriale che fosse – il “non voto” poteva avere il senso di una protesta e la forza di un grido che metteva in crisi la credibilità di un sistema. Con l’avvento invece di una personalizzazione esasperata della politica e l’affermarsi di un voto di opinione, che ha come unico criterio il proprio “sentimento”, l’astensione ha perso qualsiasi valore politico proprio. E se una volta l’insieme degli astenuti aveva quasi l’aura di un ‘popolo’, unito da una sensibilità acuta e quasi romantica del decadimento della politica, oggi è solo la somma di individui isolati. Chi non vota dovrà prima o poi ripensare a chi effettivamente faccia comodo la sua astensione. E a quali sorprese potremmo avere se anche solo una parte di essi tornasse al voto.
Soprattutto però, e questa è la seconda considerazione, il venir meno dei legami sociali lascia tutti gli elettori, votanti o meno, in balia del potere, quello dei consumi e quello delle opinioni. E anche la partecipazione elettorale, che sembra per antonomasia una affermazione di sé e delle proprie convinzioni, risulta in realtà molto più fragile e influenzabile; con la politica che assume esattamente le stesse dinamiche e le stesse “leve” di un qualsiasi prodotto commerciale. Non è un caso che i politici abbandonino sempre più spesso “i discorsi”, cioè i motivi e i valori del loro fare politica, e si presentino con elenchi di cose da fare mirati per ogni uditorio e località: appunto come una réclame con i suoi target da raggiungere.
Ma la politica non può risolvere da sola i problemi dei cittadini; una considerazione banale, ma se la si prendesse sul serio molti astenuti voterebbero e molti politici non sarebbero eletti. Per questo non può permettersi (la politica) di essere autoreferenziale, di vivere solo delle proprie analisi, dei propri progetti: in buona sostanza delle proprie prerogative di potere. E in un sistema, anche regionale, in cui i due schieramenti principali sono l’uno statalista, l’altro centralista, si capisce bene quanto il problema si reale.
Qui sta anche il senso di questo intervento, che è quello di invitare a cercare – per indirizzare il proprio voto – non tra le promesse elettorali (che infatti prefigurano un mondo perfetto, come se avessimo risorse illimitate per fare tutto e risolvere tutti i problemi allo stesso tempo), ma tra quelle dichiarazioni in cui i candidati presidenti anticipano l’uso che faranno del potere e il rapporto che avranno con i loro cittadini. Se autoreferenziali e concentrati su sé stessi o invece aperti al loro contributo, pronti a seguirli e non solo guidarli, pronti a riconoscere e valorizzare e sostenere ciò che nasce fuori dalla politica se è qualcosa che è per tutti (aiutando così la politica e anche la società civile).
Il benedetto “bene comune” non è solo il bene per tutti, ma anche il bene fatto da tutti, cui tutti contribuiscono. In fondo si tratta solo di questo, di quale relazione il prossimo ‘governatore’ e la sua squadra vorranno instaurare con i loro concittadini.
(rg)
Dar voce alle energie del territorio. Parliamo di poltica col sindaco Giorgetti
Occorre una “Rivoluzione copernicana” in politica: mettere al centro la persona, dar voce alle energie presenti sul territorio e vivere il proprio impegno amministrativo come un allargamento della propria azione a tutta la polis. È necessaria soprattutto in Regione.
Solo un paio di mesi fa, il futuro politico di Bellaria Igea Marina appariva connotato da una forte incertezza, tutta interna al centrodestra. Ben tre liste contrapposte pescavano in questo bacino elettorale ed erano guidate da uomini che nelle legislature precedenti facevano parte della maggioranza (Giorgetti, Fonti, Giovanardi e Medri). Una di queste, quella guidata da Giovanardi e Medri, peraltro, ha superato il 17% dei consensi, a riprova della fondatezza dei dubbi sulla vittoria del sindaco uscente.
Questa situazione, piuttosto singolare, sembrava riproporre quel suicidio politico che si era ripetuto in più di una tornata elettorale nel periodo precedente le due legislature Ceccarelli, quando, al contrario, un centrodestra finalmente unito riuscì per la prima volta a Bellaria Igea Marina nell’impresa di governare al posto della sinistra.
Queste incertezze sono state spazzate via dal risultato elettorale dello scorso giugno. Filippo Giorgetti è stato eletto al primo turno, con un 53,01%, malgrado il maggior competitore del centro destra abbia ottenuto un brillante 17,83 %. L’ennesima debacle della sinistra bellariese (un misero 26,73%), ha permesso a Filippo Giorgetti di intraprendere il suo secondo mandato, quarto consecutivo del centro destra, dopo i precedenti due di Ceccarelli.
Giorgetti, come spiega il suo successo elettorale?
L’unica ragione del successo delle liste che hanno appoggiato la mia candidatura è nella bontà amministrativa dimostrata in questi anni e nel radicamento sul territorio. Forza Italia ha ottenuto il 17,21%, il doppio del risultato nazionale. L’area dei cattolici che proviene dall’ UDC o Popolari, partiti che non esistono più e che si presentava con la lista di carattere civico “Noi con Filippo Giorgetti” ha ottenuto il 13,38%. Ci hanno votato numerosi elettori del centro sinistra riconoscendo il nostro buon governo. Questo ha permesso il successo, malgrado il buon risultato elettorale del candidato Giovanardi, a noi alternativo.
Lasciati alle spalle i dubbi elettorali, su quali certezze poggia la sua seconda legislatura?
Il primo punto di forza è il massiccio rinnovo generazionale sia nella Giunta che in Consiglio comunale. Abbiamo, tra gli eletti, tante new entry e alcune conferme che stanno sotto i 30 anni, tra i quali un consigliere 18enne, per non dimenticare che il vice sindaco, Francesco Grassi, è giovanissimo. Questo è un dato importante perché dimostra che abbiamo saputo rinnovarci e siamo stati in grado di allargare i cerchi di chi si interessa alla cosa pubblica. Inoltre Forza Italia fa entrare in Consiglio comunale tre donne. Sono nuove energie, nuovi mondi e sguardi che si sommano a quelli esistenti e che daranno slancio ai prossimi 5 anni.
Occorre tenere conto che i 5 anni in cui ho governato sono stati durissimi: il Covid, la guerra, il problema delle risorse energetiche e dei costi, il 110%, con tutte le implicazioni del caso, sono state sfide impressionanti. Eppure non ci hanno schiacciato ma ne siamo usciti rinnovati.
Oltre questo primo punto?
Abbiamo numerosi progetti da completare, in gran parte ben avviati, tutti volti a costruire la città dei servizi, ovvero aumentare il benessere del cittadino che - ne siamo profondamente convinti - coincide con quello del turista. Intendiamo tenere insieme economia e persone, cercando di costruire una migliore qualità della vita del paese, così che la città diventi anche per il turista un luogo dove può trovarsi a suo agio. I progetti avviati vanno tutti in questa direzione.
Ad esempio?
Avremo la riorganizzazione del sistema scolastico e la costruzione di una nuova scuola. Il nuovo lungomare di Igea Marina sarà un’opera importante, pensata perché divenga uno spazio da vivere, con isole di verde, spazi per fare jogging e attività sportiva in sicurezza, sostare con i propri figli. Il Porto canale vedrà ultimarsi la messa in sicurezza. Ma la prima sfida, per completare la costruzione della città dei servizi, è la riapertura della piscina del Gelso. Con l’acquisizione da parte dell’amministrazione si è avviato un percorso che sarà lungo ma vogliamo assolutamente portarlo a termine.
Si è letto sulla stampa circa le tensioni nella formazione della giunta, in particolare con alcuni partiti.
Niente di tutto ciò. È stato molto più semplice della scorsa stagione e abbiamo lavorato in grande sintonia. Questo perché è ampia la presenza di nuove persone, libere da schemi e da veti interpersonali. La nostra avventura politica nasce da un passato connotato da importanti rapporti intessuti da personalità rilevanti, quali Italo Lazzarini, Alfonso Vasini, Enzo Ceccarelli. Sono convinto che, partire da questa preziosa base, non tolga la necessità di qui costruire il nuovo. L’eredità nostra dobbiamo affidarla e allargarla a una nuova generazione appassionata alla politica. La composizione del Consiglio comunale e della giunta rende evidente che stiamo andando in questa direzione.
Si vince dunque con tenacia, moderazione e concretezza. Questo vale anche per le prossime elezioni regionali? Come vede la candidatura di Elena Ugolini?
È una candidatura molto interessante sia per la qualità della persona, sia per i valori portati in campo. Liberare le energie della società civile: questo suo obiettivo è da condividere e da appoggiare. Sono contento della sua connotazione civica e che il centro destra abbia deciso di sostenerla. Occorre avere un’avvertenza. Inutile mettersi a contrastare e dibattere sui temi storici del PD, fare contrapposizione su di essi. Invece si tratta di passare da un sistema di servizi centralizzato, o al massimo cooperativo, a una visione dove la persone, le associazioni, i vari mondi presenti sul territorio possano portare ricchezza, energia e soluzioni valide per tutti. Il pubblico dovrà agevolare queste energie o per lo meno non essere di intralcio. Questo fa la differenza: non la creazione di carrozzoni, più o meno efficienti ma troppo spesso fonte di sperperi. Al contrario occorre dare risposte libere e flessibili capaci di arrivare alla realtà, fin nei suoi dettagli, fino al singolo. Faccio un esempio: se anziché costruire una struttura per un bambino in difficoltà, favorisco famiglie che sono disposte ad accoglierlo, sto dando una risposta molto più vera e funzionale. Questa è la direzione da intraprendere, senza smantellare nulla di ciò che c’è di buono.
Un’ultima domanda. Nel mondo cattolico vi è un ampio dibattito sulla capacità della cultura cattolica di proporsi nel mondo di oggi (dibattito lanciato da Avvenire). Parallelamente il papa e i vescovi richiamano i cattolici a non disimpegnarsi dalla politica. Cosa significa questo per lei?
Quando ero educatore all’Azione Cattolica in parrocchia, il mio gruppo era di circa 50 - 60 ragazzi. E mi chiedevo, “ma tutti gli altri dove sono?” Non mi bastava rivolgermi ad un gruppo scelto e selettivo. Il mio desiderio era di raggiungere tutti. La politica è questo: dare qualcosa sia ai “miei”, che a tutti. Questo è lo spirito che mi guida e credo che sia questo il senso della chiamata dei cattolici ad un maggiore impegno, anche in politica, da parte del papa. Così ha un grande senso. Se invece lo scopo è contarci e farci forti come gruppo chiuso, una corporazione, non penso potremo essere incisivi. Fare la riserva indiana non è utile a nessuno. Dobbiamo essere come una luce rispetto al buio. È questo il contributo che possiamo dare in ambito pubblico. E devo dire che non mi preoccupa essere di fronte ad altri amici cattolici che hanno scelto parti politiche opposte. Se penso alla mia esperienza, con persone come Gianfreda, Lisi e tanti altri, magari non siamo d’accordo sulle soluzioni contingenti, ma so che ho basi comuni e questo aiuta a trovare mediazioni, magari migliori dell’idea iniziale, e soprattutto aiuta ad abbattere steccati.
Emanuele Polverelli
Elezioni a Bellaria, tanta incertezza e molte domande
A gennaio avevamo giudicato la situazione politica di Bellaria Igea Marina come connotata da inquietudine, viste le fibrillazioni presenti a destra come a sinistra.
Conclusa oramai la campagna elettorale, a meno di una settimana dal voto, possiamo interrogarci se le acque si siano placate o se continuino ad essere in agitazione e, soprattutto, sulle conseguenze che potrebbero portare in un comune a forte trazione elettorale di centro destra e che dunque dovrebbe far pensare a una sicura riconferma della giunta uscente.
I 4 candidati sindaco si sono confrontati in occasione dell’incontro di circa un mese fa, organizzato dalle parrocchie e introdotto da mons. Niccolò Anselmi che ha riportato le preoccupazione della chiesa rispetto alla politica. Anselmi ha sostanzialmente ricordato i principi cardine per costruire il bene comune contenuti nella Fratelli tutti di papa Francesco. Ma se è stata chiara la domanda della chiesa alla politica (costruite il bene comune), meno chiara risultata la risposta.
Al di là di un clima dialogante e pacato, i contenuti espressi, sono stati piuttosto desolanti, così come nella restante propaganda, densa di richiami di principio e di slogan generici. Eppure, questo scarso sforzo progettuale di tutte le liste in contesa contrasta con l’attivismo della campagna elettorale di queste ultime due settimane, soprattutto da parte di un paio di liste.
Ma riassumiamo il quadro che è emerso in questi mesi.
Parlavamo di inquietudine.
Se il centro sinistra ha vissuto, intorno a Natale, la tornata più burrascosa immaginabile (presentazione di un candidato nuovo per il territorio e prontamente “bruciato” dalla vecchia guardia del PD), ora appare compatto nel sostenere la candidatura di Ugo Baldassarri, ovvero il vice sindaco della sconfitta definitiva di quel centrosinistra, in agonia da tempo a Bellaria. Sconfitta che ha lasciato per tre candidature il paese in mano al centro destra. Proprio lui, ora, dovrà tentare il recupero di Bellaria Igea Marina al centro sinistra, appoggiato dai 5 Stelle e una lista civica.
Nel centro destra la situazione era complicata e lo resta.
Troviamo infatti la lista di Primo Fonti, del partito Insieme, declinato in locale nella dicitura Insieme per Bellaria Igea Marina, che si rivolge in primo luogo ai cattolici e fa leva su temi di inclusione e condivisione, per ricostituire un tessuto sociale comunitario vivo. Fonti, in realtà, faceva parte del centro destra bellariese ma ora si smarca, rifiutando entrambi gli schieramenti e facendo leva sulla necessità di rinnovare la politica al di là di schemi pre-esistenti. Posizione interessante, ma che risulta piuttosto priva di aggancio al territorio, sia come rappresentanza di candidati, che sui temi del programma incentrato su principi generali.
Troviamo poi le due liste che appoggiano la candidatura di Gianni Giovanardi. Potremmo chiamarle liste dei fuoriusciti dai loro partiti. Da una parte leghisti (o ex leghisti) indipendenti e insofferenti, dall’altra ex AN, confluiti poi in Obiettivo Comune. Il tutto accompagnato da numerosi civici, tra cui il candidato sindaco, tuttavia già assessore nelle giunte di centro destra. Interessante notare che i fuoriusciti (da lunga data) da AN sono sempre stati a Bellaria Igea Marina il nucleo portante del partito e dotati di forte attivismo. Inoltre la forza di questa lista è nel radicamento nelle categorie, o quel che resta di esse, ovvero nel mondo economico della città. Una lista civica dunque, ma con uomini che muovevano mondi politici oggi collocati - almeno dal punto di vista della posizione dei partiti nella loro ufficialità - nella terza candidatura, ovvero quella di Filippo Giorgetti.
E veniamo dunque alla candidatura del sindaco uscente. Filippo Giorgetti è sostenuto in forma compatta dalle forze politiche del centro destra. Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega più il mondo cattolico degli ex lazzariniani, un centro politico a Bellaria Igea Marina piuttosto forte elettoralmente, sono il sostegno che dovrebbe far pensare ad una sicura vittoria. Eppure, come sottolineato anche dalla stampa locale, si ritiene assai probabile il ballottaggio e, nel ballottaggio, l’imprevisto.
Quel che, a pochi giorni dalle elezioni, avvalora queste preoccupazioni, o speranze a seconda da dove le si guardi, è l’attivismo delle liste a sostegno di Giovanardi che pare stiano profondendo ampie risorse per una campagna elettorale decisamente garibaldina.
A questo punto la partita si gioca su alcuni fattori decisivi del tutto imponderabili.
In primo luogo, l’elettorato seguirà l’appartenenza partitica attuale oppure i vecchi riferimenti, ovvero quei civici che erano leader in tali ambiti, ambiti che oggi si ritrovano leadership ufficiali decisamente deboli?
Nel primo caso non vi sarà partita. Giorgetti conta un sostegno ampio. Ma sappiamo che nelle amministrative le cose possono prendere diverse direzioni.
Nel secondo caso, la partita è aperta e si misurerà sulla presa, nuova o residua, dei protagonisti del battage elettorale. Primo Fonti eroderà la fin qui solida base cattolica che a Bellaria ha sostenuto da tre tornate elettorali il Centro destra? E i catto-leghisti delle liste Giovanardi, saranno convincenti negli ambienti cattolici? E che accadrà a destra, in area Fratelli d’Italia, ufficialmente con Giorgetti ma in realtà a Bellaria storicamente legata (per lo meno ai tempi di AN) ad alcuni candidati che sostengono Giovanardi e che sono stati la leadership della destra locale? Ma costoro sono ancora rappresentativi di questi mondi? Esistono ancora questi mondi o prevalgono numericamente masse di cittadini anonimi che seguiranno il simbolo della Meloni, portando così voti a sostegno di Giorgetti, sindaco d’area Forza Italia?
Ma soprattutto, se Giovanardi costringerà Giorgetti al ballottaggio con Baldassarri (ipotesi ritenuta da molti assai probabile), poi con chi si schiererà? Viste le idiosincrasie tra le due liste (e tra molti dei loro candidati) non sarà mai che si possa assistere ad un voto dei giovanardiani alla sinistra? Ipotesi che sa dell’incredibile se si guardano i singoli candidati delle due liste, ma che potrebbe entrare in una perversa logica politica, fatta anche di tanti personalismi e veti incrociati tra chi pur dovrebbe, in teoria, avere maggiore affinità politica.
Può darsi che i risultati elettorali, lunedì prossimo, spazzino via tutte queste inquietudini, ma il rischio che Bellaria Igea Marina torni ad essere governata dalla sinistra non è più un’ipotesi impossibile. Rischio che si palesa, ancora una volta, di fronte a una sinistra inconsistente e ingessata dai vecchi riferimenti che l’hanno dissolta una ventina di anni fa.
Sarebbe una situazione degna di un teatro dell’assurdo, pecoreccio e deteriore. Ma non impossibile (e già accaduto in passato a Bellaria Igea Marina).
E l’unico sconfitto sarebbe il paese.
“È bello vivere in questa epoca” Il nuovo libro di don Roberto Battaglia
Un’affermazione come quella Don Roberto Battaglia, espressa nel titolo, è senza dubbio paradossale. Eppure in questa intervista ci spiega come, in un tempo così cupo e indecifrabile, si possa vivere senza perdere la propria umanità. E come in questo consista il destino della Chiesa e dell’umanità intera.
La pubblicazione dell’ultimo libro di don Roberto Damiano Battaglia, Ritornare all’origine. Uno sguardo di speranza di fronte alla fine della cristianità, edito da Cantagalli, con prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, cade in un momento particolare per la storia della Chiesa, dalla quale non sono esclusi i movimenti ecclesiali, una delle espressioni più vivide e creative della non facile età post conciliare.
Il testo sarà presentato dall’autore, insieme a Stefano Zamagni, docente di Economia politica e presidente emerito della Pontificia Accademia delle scienze sociali, e al teologo don Pierluigi Banna, docente di patrologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, coordinati da Simona Mulazzani (Icarotv), lunedì 3 giugno, alle ore 21 presso il Teatro del Seminario vescovile “don Oreste Benzi” in via Covignano, 265 a Rimini.
Una pubblicazione e una presentazione non certo di routine, né per addetti ai lavori, ma, come si diceva, capace di toccare nodi rilevanti, ed anche nervi scoperti, di una società assetata di punti di riferimento, ma allo tesso tempo decisa nel rifiutare verità preconfezionate, fino a dubitare dell’esistenza di una qualsivoglia risposta alle sue ansie e alle sue esigenze più profonde ed essenziali.
Nodi rilevanti anche per la Chiesa nel suo insieme, impegnata in un cammino sinodale tutt’altro che semplice e che assiste, spesso con un senso di impotenza e rassegnazione, al calo della frequenza ai sacramenti da parte dei giovani, al calo delle vocazioni, sia sacerdotali che matrimoniali, e ad una scarsa capacità di giudizio originale sulle questioni più urgenti della società, come attesta un interessante dibattito, apertosi da qualche settimana su Avvenire, ricco di interventi qualificati.
È proprio su questi punti, decisivi per il futuro stesso del Cristianesimo e, in fin dei conti, dell’umano, che si colloca il testo di don Battaglia, con un approccio che vuol evitare sia la riflessione puramente dottrinale, lontana dall’esperienza, sia il pragmatismo sociologico-pastorale, spesso privo di spessore. Per questo don Battaglia fa appello all’umanità della fede o, per meglio dire, alla fede che risponde alle domande dell’umano, aspetto che rileva come elemento originario ed originale del cristianesimo.
Gli abbiamo posto alcune domande.
Don Roberto, lei parte nel suo testo dalla frase di Eliot spesso citata da don Giussani, in cui ci si interroga se sia stata l’umanità ad abbandonare la chiesa oppure la chiesa ad aver abbandonato l’umanità. Quando la chiesa abbandona l’umanità? E che conseguenze comporta?
Don Giussani affermò che “noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé”. Così la prima umanità ad essere abbandonata è la nostra, con la conseguenza di una mancata verifica della fede che è senza dubbio la prima causa dell’abbandono della fede stessa da parte di tanti nostri contemporanei. Occorre ripartire dalla nostra umanità per una verifica in cui porsi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo provocando e condividendo le domande di fondo. Ultimamente, in un tempo in cui domina la “paura di vivere”, la questione decisiva è ridotta all’essenziale: “Come si fa a vivere?”
Lei sostiene che partire dall’origine significa partire da Cristo inteso come una presenza e non come una dottrina. Ma perché un uomo impegnato nel suo lavoro, negli affetti, oppure di fronte ai figli, dovrebbe guardare a Cristo?
Appunto, perché? In questo tempo non possiamo più permetterci di dare per scontata la fede, a nessun livello. Questo ci libera dal clericalismo di preti e di laici, che nasce dal porre in primo piano il proprio ruolo e l’organizzazione ecclesiastica dando per scontata la fede e la sua verifica nell’esistenza quotidiana. Guardando a coloro in cui riconosco il ridestarsi di un’attrattiva per l’esperienza cristiana – mi riferisco sia a chi già partecipa in varie forme alla vita ecclesiale sia a chi si accosta ad essa per la prima volta – mi rendo sempre più conto che questo accade per la scoperta di uno sguardo umano capace di abbracciare tutta la propria umanità senza scartare nulla delle proprie domande, anzi facendole emergere. Diverse volte giovani e adulti mi hanno detto di aver trovato nella comunità cristiana un luogo dove poter porre domande. Il primo ad aver bisogno di tornare a incrociare ogni giorno questo sguardo umano sono io.
Cosa significa per la Chiesa intera recuperare l’origine, ovvero Cristo?
Non si tratta di ripartire dal discorso su Cristo ma dalla contemporaneità del suo accadere tra noi. Dire che il cristianesimo è innanzitutto un avvenimento, come hanno affermato sia Benedetto XVI sia Francesco nei documenti programmatici dei loro pontificati e come sottolinea il card. Zuppi nella sua prefazione al mio testo, significa ripartire sempre da una “storia particolare”. Nella nostra pastorale come nella teologia e nella stessa vita ecclesiale contemporanea è tutt’altro che superata la questione nota in cristologia come “il problema di Lessing”. Talvolta in maniera subdola e occulta, ma non di rado esplicitata nei dialoghi correnti all’interno delle nostre comunità, essa riaffiora costantemente come l’obiezione di fondo all’annuncio cristiano: come può un fatto storico contingente, delimitato nel tempo e nello spazio, un uomo singolo, individuabile e incontrabile in circostanze storiche circoscritte in luoghi e momenti precisamente determinabili, rivendicare una pretesa assoluta e universale? Tutto invece ricomincia sempre - per me, per una comunità e per la Chiesa tutta - da un incontro particolare, come è accaduto a Giovanni e Andrea alle quattro del pomeriggio di quel giorno che continuò ad essere il loro presente per tutta la vita. La stessa istituzione ecclesiale è costituita, come affermò l'allora card. Ratzinger, dall’improvviso "irrompere di qualcosa d’altro”, che perturba il tuo orizzonte; un qualcosa inaspettato, non frutto di categorie o di pensiero ma un semplice “fatto”.
E per i movimenti (penso a voi di Cl rispetto a don Giussani, la cui causa di beatificazione sta procedendo in maniera positiva) che significa tornare all’origine?
Fu proprio nel 1968, quando tanti lasciarono Gioventù studentesca ritenendo che fossero più concreti i progetti politici, ovvero le proprie analisi e principi di azione rispetto all’annuncio cristiano, che Giussani rispose a questa sfida con l’affermazione da cui è tratto il titolo del libro: “metodologicamente non possiamo fare altro, se non vogliamo confonderci, che ritornare all’origine”. La questione è radicale, come insisteva lo stesso sacerdote ambrosiano in quegli anni: “[l’alternativa è] se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi”. Papa Francesco ha spesso invitato tutti i movimenti a rinnovare l’esperienza del proprio carisma rispondendo alle sfide di oggi, come i fondatori avevano fatto all’origine. Di recente l’attuale presidente della Fraternità di CL, Davide Prosperi, ha affermato come "la provocazione che viene dalle domande nuove e inedite che il mondo ci mette di fronte, se ci poniamo umilmente in loro ascolto, può paradossalmente aprire a una più profonda scoperta della verità contenuta in Cristo e nel carisma". In questi giorni sono stati inoltre pubblicati i testi integrali del dialogo tra Charles Taylor, Julián Carrón e Rowan Williams (“Abitare il nostro tempo”, edito da Rizzoli), i quali offrono un decisivo contributo in questa direzione, mentre non mancano, nel nostro come in tutti i movimenti, diversi accenti e sensibilità, che, in una reale comunione possono concorrere a riconoscere i “nuovi germogli” dei carismi, i quali “crescono in pienezza, come crescono le verità del dogma e della morale” come ha affermato l’attuale pontefice.
Infine, don Roberto Battaglia è un uomo felice? Ovvero vive la speranza per l’oggi e i giorni prossimi?
Proprio qualche giorno fa un giovane di una delle mie classi dell’Alberghiero Malatesta di Rimini – che non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica – mi ha chiesto inaspettatamente: “Prof., ma lei è contento della sua vita?”. Gli ho risposto “sì” di schianto, sorprendendomi a dirlo come non lo avrei detto anni fa, raccontandogli come negli anni questo sguardo positivo sulla mia vita sia cresciuto, pur dentro i limiti e le fragilità che ciascuno di noi si porta addosso. Il suo sguardo lieto, nel sentirsi dire così, mi ha colpito profondamente facendomi riscoprire come la testimonianza che la vita sia buona e che si possa compiere la promessa custodita nel desiderio del nostro cuore sia ciò che giovani e adulti chiedono. Per questo è bello vivere in questa nostra epoca.
Dove trae la forza la sua speranza?
La grazia più grande di questi ultimi anni è stata quella di cominciare a vedere quello che prima non vedevo. Quando pensiamo all’agire di Dio spesso abbiamo in mente segni clamorosi, come i miracoli narrati nei vangeli, ma la medesima dinamica evangelica la si riconosce non di meno in fatti apparentemente irrilevanti. Un incontro imprevisto, cinque minuti di un dialogo intenso in una classe, una domanda inaspettata di un giovane a scuola, una persona che rimane colpita da quello che tu le comunichi e che, al tempo stesso, sei tu il primo ad aver bisogno di imparare: sono tutti istanti in cui la Persona amata si fa presente e quando si incrocia il suo sguardo cambia tutto.
Da uno sguardo si può ricominciare, da un’idea no. Entrare in una circostanza – come il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo – nella certezza che la Persona amata può spuntare all’improvviso rende le giornate piene di avvenimenti di cui prima non mi accorgevo. Ricominciare dall’origine coincide con questa semplicità evangelica, poiché l’origine stessa è lo sguardo di Colui che ha avuto sete della sete di quella donna incontrata per caso al pozzo e che ha incrociato il desiderio di Zaccheo: nel tempo della fine della cristianità come in ogni momento della storia, l’unica chance per il cristianesimo è lasciarsi sorprendere da quello sguardo.
Il testo sostanzia gli spunti che in maniera viva don Roberto Battaglia ci ha lasciato in intervista. L’invito indubbiamente è quello di leggerlo, ma senza dubbio merita anche di essere seguita la presentazione, rispetto alla quale va segnalata la presenza di due figure di spicco, assai diverse per formazione e per età. Alla saggezza di Zamagni, figura di riferimento per il mondo cattolico, studioso dell’economia e consulente di pontefici, si affianca un teologo giovane ma già con un’esperienza di rilievo sia dal punto di vista accademico, sia nel lavoro educativo coi giovani in università, che sulla fine della cristianità ha già proposto riflessioni assai interessanti, tentando una risposta alla fatidica domanda: “come costruire il cristianesimo, in un’età priva di cristianità?”.
Appuntamento al Seminario di Rimini, lunedì 3 giugno 2024, ore 21.
Emanuele Polverelli
Un’idea poetica di Cristo. Presentazione del libro di Valerio Lessi
Un’idea poetica di Cristo. Vito Fornari e Luigi Giussani, è il titolo dell’ultimo libro, edito da Pazzini, del giornalista e scrittore Valerio Lessi, che vive a Rimini. Di Vito Fornari, geniale filosofo e teologo dell’Ottocento, di cui si è persa la memoria, don Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e LIberazione, disse che era stato per lui fondamentale come genesi per l’idea poetica di Cristo. Dalle ricerche effettuate fino ad oggi, per nessun altro autore, più famoso e blasonato, il prete milanese ha usato questa espressione. Il libro di Valerio Lessi per la prima volta indaga su questo decisivo influsso che Fornari ha avuto sul pensiero di Giussani. «Con il suo testo Lessi – scrive il professor Massimo Borghesi nella Prefazione - ha il non piccolo merito non solo di aver riportato l’attenzione su un significativo e trascurato pensatore del cattolicesimo italiano dell’800, ma anche di aver aggiunto un ulteriore tassello nella ricostruzione della ricca e poliedrica formazione di Luigi Giussani».
Il volume sarà presentato martedì 12 marzo alle ore 21 nell’Aula Magna dell’Istituto di Scienze religiose A. Marvelli, in via Covignano. L’incontro è promosso dal centro culturale Il Portico del Vasaio e dall’Istituto Marvelli. Intervengono: Massimo Borghesi, docente di filosofia morale all’Università di Perugia e Autore della Prefazione; Elia Carrai, docente di teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale (Firenze); Marco Casadei, direttore dell’Istituto di Scienze religiose A. Marvelli.
Il libro narra il fecondo incrocio tra due storie, l’incontro a distanza fra due grandi uomini. La prima storia è quella di un filosofo-teologo, dell’Ottocento, Vito Fornari. La seconda è quella di don Luigi Giussani, geniale educatore e pensatore del Novecento, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. In entrambe le storie è decisivo il momento dell’adolescenza. Vito Fornari a quell’età era alla ricerca di un punto unitario, a cui ricondurre tutto, l’universo e la storia. A un certo punto lo individua nel Verbo che si fa carne, che per lui è la Bellezza che si fa carne, quella Bellezza per cui è stato creato il mondo, quella Bellezza attesa da tutta la storia anche quella profana. Il mistero dell’Incarnazione diventa per lui il centro e il fine della storia e su questo tema scrive il suo capolavoro, Della Vita di Gesù Cristo, cinque volumi, 1650 pagine.
Anche don Giussani, da adolescente, ebbe il suo “bel giorno” in cui udì con stupore il proprio professore di religione spiegare il Prologo del Vangelo di Giovanni: «Il Verbo di Dio [ovvero il termine delle esigenze del cuore umano, cioè l’oggetto ultimo dei desideri del cuore umano, la felicità] si è fatto carne». Un evento decisivo: «Da allora l’istante non fu più banalità per me».
L’ipotesi dell’autore è che, nel leggere l’opera di Fornari, Giussani abbia avuto la conferma, da adulto, dell’intensa vibrazione vissuta da adolescente all’ascolto della lezione del suo insegnate di religione.
Vivere è cominciare sempre. Le Comunità Educanti in Carcere si raccontano
Il 27 gennaio sera, 350 persone si sono ritrovate a cena per sostenere le Comunità educanti in Carcere (CEC), esperienza nata all’interno della comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, e che, da qualche anno, sono uno dei luoghi della “caritativa” (aiuto gratuito a chi ha bisogno per imparare la gratuità nella propria vita) di Comunione e Liberazione. Ad ogni tavolo gli invitati sono in compagnia di un volontario - il soggetto che ha organizzato la cena - e di un carcerato, per conoscersi e capirsi da vicino.
Il 18 gennaio mattina, 800 studenti incontrano Adriano, carcerato del CEC, Davide, ex carcerato ora educatore presso Kairos, la comunità milanese fondata da don Burgio, Youlsa, immigrato con i barconi in Italia dal Mali ed ora impegnato nella costruzione di una scuola nel suo paese d’origine ed un sacerdote missionario dalla vita "on the road”, frenato tuttavia nelle sue corse da un brutto incidente. Ora è senza una gamba ma sostiene che la sua non è stata una disgrazia. Corre più di prima, senza correre.
Gli ultimi due, la sera precedente, il 17 gennaio, avevano incontrato la città, 600 persone al teatro Tarkovskij. In luogo di Adriano vi erano, sempre provenienti dal CEC, Gustavo e Manuela. Si tratta di una coppia che ha vissuto le dinamiche più orribili che stanno riempiendo i nostri giornali. Violenze in famiglia. Eppure sono lì, insieme, a raccontarsi, a raccontare le loro fragilità e come siano potuti ripartire (e ripartire insieme). Un percorso lungo oltre 10 anni, che ha portato all’impossibile, a quello che il mondo ritiene - non senza apparenti ragioni - persino inopportuno.
In primavera, il 26 e il 27 aprile, il Portico del Vasaio, centro culturale di Rimini organizzatore dei due incontri (quello mattutino con il supporto della Consulta Provinciale degli Studenti e con la collaborazione attiva degli stessi) aveva fatto conoscere alla città e agli studenti (stessa formula che è stata ripetuta a gennaio) Fiammetta Borsellino, don Claudio Burgio e il magistrato Roberto Di Bella, fondatore di Liberi di scegliere. Fiammetta sostiene che la sua soddisfazione non consiste nel sapere in carcere i carnefici di suo padre, ma se potranno intraprendere una strada che permetta loro di recuperare la loro umanità; don Claudio sostiene che “nessun ragazzo è cattivo”, anche di fronte alla durezza dei giovani che incontra in carcere, spesso esemplificata plasticamente nelle note della musica Trap; Di Bella strappa i figli alle famiglie malavitose (con l’accordo delle mamme), perché non restino intrappolati nelle logiche di mafia.
Cosa dunque sta accadendo nella nostra città, luogo dell’incrocio di queste esperienze? Cosa sta accadendo per cui la logica che vuole l’uomo morto e sepolto dai suoi errori o dai suoi limiti, viene così spezzata e superata? In tutti questi eventi, punta d’iceberg di un impegno e di una presenza di numerose e differenti realtà del territorio, è messo in discussione quel senso di cinica inevitabilità che ci soggioga tutti e ci priva di immaginare percorsi di redenzione (per noi e per gli altri attorno a noi).
La tentazione di chiudere in cella il colpevole e gettare via la chiave, oppure di considerare inaccettabile una vita condizionata da un grave incidente e dunque non performante, è in fin dei conti quella logica che applichiamo a noi stessi, quando ci consideriamo - consapevoli o meno - privi di speranza di una ripartenza quotidiana. Poiché ogni giorno necessita una ripartenza.
Questa logica è spezzata dall’opera delle Comunità del CEC (con risultati concreti, giacché la reiterazione del reato è del 15% contro l’80% di chi resta in carcere), dalle parole e dall’opera educativa di Fiammetta (che volle - cocciutamente volle - l’incontro con i ragazzi pena il non essere disponibile a venire a Rimini), dalla tenacia di don Claudio Burgio, così come dalle parole degli altri protagonisti.
Ma soprattutto è spezzata dai volti di chi ha partecipato agli incontri, come se il riconoscersi di fronte a una dimensione più essenziale ed autentica di sè, si fosse diffusa per osmosi su ognuno e si fosse dimostrata liberante.
Occorre interrogarsi seriamente su come si siano potuti realizzare e su come possano dilatarsi questi frammenti di un mondo nuovo, perché la nostra società ne ha un assoluto bisogno. Ne ha bisogno ognuno di noi. Ne hanno bisogno le classi scolastiche, riempite dal disagio dei nostri giovani e nostri docenti, le famiglie che si sentono sempre più smarrite, dense come sono di fragilità mai superate, i luoghi pubblici che frequentiamo la sera, i luoghi di lavoro, la politica.
E ognuno di noi può mettersi al servizio, nel modo che preferisce, di questa fioritura di esperienze, individuando in esse l’unico giudizio innovativo sulla sua situazione attuale, capace di superare il cinismo delle tante analisi. Rivelano che il loro agire nasce da una incontenibile passione per l’uomo, e dunque dalla ricerca di ciò che può vincere la gabbia in cui tutti, in un modo o in un altro, siamo incarcerati.
Una bella scommessa, da sostenere e da guardare con attenzione.
L’inquietudine politica di Bellaria Igea Marina
Quando la vita ricomincia, racconti e testimonianze nell'incontro proposto dal Portico del Vasaio
Il centro culturale Il Portico del Vasaio di Rimini propone due incontri con testimonianze di persone che, dopo cadute, incidenti, drammi, hanno vissuto l’esperienza di un nuovo inizio; il primo, Mercoledì 17 gennaio ore 21,15 al Teatro Tarkovskij in Via Brandolino, 13 a Rimini per tutta la città; il secondo, Giovedì 18 gennaio, stesso luogo, per gli studenti delle scuole medie superiori.
È possibile ricominciare? Quando la vita presenta i suoi conti pesanti, cosa permette di ripartire? Cesare Pavese scriveva che «È bello vivere perché vivere è ricominciare sempre». È la bella frase di un grande scrittore o può essere un’esperienza reale?
Dopo l’incontro dello scorso aprile su Una giustizia che ricrea con Fiammetta Borsellino, don Claudio Burgio e il giudice Roberto Di Bella, il Centro culturale Il Portico del Vasaio di Rimini ha deciso di continuare un percorso attraverso la ricerca di persone che “ripartono”, ovvero che testimoniano la possibilità di rialzarsi dalle inevitabili cadute che nella vita accadono ad ognuno di noi.
Nasce così questo nuovo incontro dal titolo “Quando la vita ricomincia” il cui scopo è scandagliare la risposta a questa domanda: che cosa vuol dire ripartire o ricominciare nella vita? E come è possibile arrivare a dire, come scrive uno dei relatori, Luca Montini, nel suo libro che: “Di certo non tornerò quello di prima, ma io non desidero la vita di prima. Desidero vivere il presente.”
Interverranno: don Luca Montini, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo e autore del libro “Con un piede in Paradiso”, dove racconta dell’incidente in Africa che gli è costato l’amputazione di una gamba e cosa gli ha permesso di ricominciare; Youlsa Tangarà, Fondatore dell’Associazione Yérédemeton; Youlsa è un giovane del Mali che nel suo villaggio natale era l’unico a frequentare la scuola. La guerra che ha sconvolto il paese africano lo ha costretto ad emigrare ed è arrivato in Italia tramite il solito itinerario: deserto-Libia-barconi, sbarco a Lampedusa. In Italia insieme ad altri giovani maliani ha fondato un’associazione che ha realizzato nel suo villaggio una scuola frequentata da 60 studenti; Gustavo ed Emanuela, CEC (Comunità Educante con i carcerati). Due coniugi, una rottura profonda e drammatica, un percorso di rinascita del proprio io che entrambi hanno seguito, fino ad una riconciliazione. La Cec è una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII presente sul nostro territorio. Modera Giorgio Paolucci, giornalista e scrittore, autore del libro “Cento ripartenze“, che con questo libro ha ispirato questo incontro.
Giovedì mattina ci sarà una seconda edizione dell’incontro riservata agli studenti delle scuole medie superiori di Rimini e provincia, organizzato insieme alla Consulta provinciale degli studenti. Sono attesi 700 studenti. Oltre ad alcuni degli ospiti che interverranno la sera prima, saranno presenti Daniel Zaccaro, educatore della comunità Kairos di don Claudio Burgio e protagonista del libro biografico “Ero un bullo”; Zaccaro, considerato un ragazzo perduto e irrecuperabile, era finito in carcere; a segnare la svolta di una straordinaria rinascita, l’incontro con don Claudio, cappellano del carcere Beccaria e Adriano del CEC (Comunità Educante con i carcerati).
Turismo a sviluppo verticale
Il nostro primo articolo sullo ‘sviluppo verticale’ del turismo risale al 2008, quando ancora ci chiamavamo Ariminol (“Dauntaun Rimini, l’ora dei grattacieli”).
Di certo non saremo stati i primi in assoluto, ma ciò che è ancora interessante del suggerimento di allora, così come della proposta di oggi del sindaco Sadegholvaad, non è tanto il numero dei piani (grattacielo sì, grattacielo no) che dovrebbero avere i nuovi alberghi, ma lo strumento amministrativo e di pianificazione che dovrebbe permettere il passaggio delle cubature da hotel ormai dismessi a strutture ricettive attive e in grado di ‘raccoglierle’. In questo modo infatti, questa era la tesi centrale dell’articolo, quelle stesse cubature attualmente fuori dal mercato tornerebbero ad avere un valore commerciale per i loro proprietari e comunque sempre in ambito turistico.
In passato si è provato, ma senza successo, a trasferire i metri cubi di singole strutture in difficoltà a strutture in attività che fossero nelle loro immediate vicinanze, ma la coincidenza di ‘prossimità’ e ‘intenzione di investimento’ non si è mai realizzata. Oltretutto, poiché si tratta di rimpiazzare qualcosa come 300 alberghi, occorre un meccanismo in grado di facilitare e favorire trasferimenti multipli e importanti. Solo così i risultati ‘a terra’ avranno anche un impatto sul territorio in termini di spazi liberati e ridestinati all’uso pubblico.
Se dunque sono diverse le grandi catene che hanno manifestato interesse a investire in riviera, ben venga l’intenzione di rendere loro disponibile l’edificato degli hotel fuori mercato in cambio del loro abbattimento. Ma ovviamente si aprono anche una serie di interrogativi.
Quali sarebbero le strutture ricettive su cui ‘caricare’ le cubature degli hotel marginali? Strutture già esistenti o da costruire? Difficile pensare a grandi catene relegate a ridosso della ferrovia; dobbiamo dunque immaginare una serie di alberghi di “qualche piano” più alti in prima fila?
Non sappiamo se la battuta del sindaco sui grattacieli dissonanti con la nostra tradizione sia stata solo una cautela per non esporre la sua proposta a un dibattito insidioso o una personale convinzione culturale. Per parte nostra possiamo solo suggerire, se di visione si tratta, di non caricare questa ipotesi di troppe pregiudiziali. Proviamo invece a capire cosa il mercato e la realtà del territorio ci suggerisce.
Ad esempio, un edificio sufficientemente alto non avrebbe bisogno di essere posizionato nelle primissime ‘file’ per essere attrattivo e potrebbe essere costruito nelle ‘retrovie’, proprio dove di solito si trovano gli hotel marginali; potrebbe assommare la cubatura di più hotel dismessi e potrebbe permettere una certa creatività costruttiva. Anche perché, diciamo la verità, quando parliamo di peculiarità riminese non parliamo del deco district di Miami, ma solo di tante scatole quadrate di colore diverso, condominii prestati al turismo e che certamente non sono un gran contributo alla storia dell’architettura.
Probabilmente, l'indicazione più concreta potrà venirci solo da una vera e propria mappatura degli hotel già fuori mercato. E sarà interessante vedere cosa ci suggerisce la loro distribuzione, e se disegna aree privilegiate per favorire nuove costruzioni importanti.