Si chiamava Vadim, il ventiduenne di Ravenna arrivato in treno a Riccione per la Notte Rosa del 2012 e morto all’alba del venerdì tra le migliaia di altri giovani che festeggiavano nella zona dei locali sulla spiaggia: ubriaco e probabilmente affogato alla foce del fiume Marano, dove poi è stato ritrovato.
Suo padre Giuseppe, per ricordarlo, almeno secondo quanto riferito dai giornali nei giorni scorsi, ha voluto essere a Riccione per la Notte Rosa di quest’anno, appena conclusa. “C’ero venuto, senza dirlo a nessuno, anche lo scorso anno. Nello stesso punto dove hanno trovato il corpo di mio figlio. Volevo vedere cosa succedeva tra i ragazzi, qualcosa che mi potesse aiutare a capire di più di quella notte tragica.”(Resto del Carlino).
Possiamo immaginare quest’uomo, solo, nella notte inaugurale del divertimento estivo romagnolo, che cammina tra i ragazzi, magari sotto i loro sguardi di derisione o invece di sospetto; ancora incapace di fare i conti con il proprio dolore, tanto grande da far passare in secondo piano qualsiasi convenzione e valutazione di opportunità sul proprio comportamento; sospinto solamente dalla necessità di capire cosa cercasse suo figlio, cosa si aspettasse o desiderasse, cosa ci trovasse in quella musica e in quella grande bolgia di sconosciuti.
Non un’invettiva verso ciò che non gli appartiene e magari non condivide, verso qualcosa che comunque gli ha tolto suo figlio per sempre e che, insomma, avrebbe ben diritto di condannare senza tanti giri di parole; uno sgomento, invece, che lo spinge a cercare di conoscere il figlio più di quanto sia stato capace di farlo quando l’aveva vicino.
Che questo sia possibile o meno, ciò che appare decisivo, anche per noi che osserviamo questi sentimenti solo dall’esterno, è questo sguardo senza rete, senza la protezione delle convenzioni, delle ragioni prese a prestito dal mondo intorno, che costringe un padre a ripercorrere i passi del figlio, a confrontare ciò che lui, adulto, ha imparato della vita con quello che suo figlio forse sapeva o forse solo desiderava; come accettando, così, di vagliare al fuoco della sua tragedia quello che egli, oggi, pensa davvero della vita.
Decisivo perché l’interrogativo su cosa ci si aspetti, cosa si chieda, cosa si cerchi nelle cose e nei fatti della vita resta in ogni caso l’unico aspetto del rapporto che conta davvero tra due persone, ancora di più fra padre e figlio. E se è impossibile prevedere dove questo percorso possa portare oggi quel padre, certo il tocco bruciante di quella domanda, la condivisione o addirittura l’immedesimazione con quella del figlio glielo manterranno vicino.
Allo stesso tempo, la ricerca di questo padre, tanto impropria e scandalosa per i nostri comportamenti abituali, chiede a noi stessi se siamo disposti a farci carico, a condividere e ad accogliere come nostri, gli interrogativi di un figlio o di qualsiasi altro uomo incontreremo sulla nostra strada; disposti cioè a mettere alla prova di quei loro interrogativi, di nuovo, le nostre stesse certezze ed esperienze, disposti ad abbandonare i nostri accomodamenti e a ricominciare: come ogni incontro è, e non può essere altrimenti, un inizio nuovo.
Come il padre di Vadim che ‘ricomincia la vita’ - questo sì, il vero scandalo - nel punto in cui quelle domande hanno il viso del figlio.
(rg)