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Lo stupro di Miramare, un male che ci riguarda

Martedì, 29 Agosto 2017

È possibile affermare, senza essere linciati o accusati di essere “buonisti” (il nuovo marchio di infamia a cui si ricorre quando si vuole liquidare una posizione diversa dalla propria), che i quattro stupratori seriali di Miramare si sono comportati come bestie, ma non sono bestie, sono uomini?

In quello specchio deformante delle nostre debolezze e delle nostre paure che sono diventati i social, la prima reazione, da cui poi sono discese tutte le altre (dalla castrazione chimica o fisica alla pena di morte, agli insulti a chi sostiene l’accoglienza verso i migranti, ecc.), è stata tracciare una linea di demarcazione netta fra “noi” e “loro”: “noi” siamo i buoni (ecco, per eterogenesi dei fini, un’altra forma di “buonismo”), i civili, gli uomini; “loro” sono i cattivi, non sono uomini, sono appunto bestie. Probabilmente poi sono nordafricani, dunque di Paesi di religione islamica (come un giornale on line nazionale titolava con malizia, definendola “una gang di musulmani”).

E così, tracciata questa linea di separazione ontologica, si coltiva, con lo stile dei leoni da tastiera, la propria indignazione furente che non si limita all’episodio, ma coinvolge tutto e tutti (dal governo nazionale a quello locale, passando per un’infinità di altri soggetti), perché tutto e tutti fanno parte di quell’impero del male che vuole minare la nostra esistenza pacifica di persone perbene.

Il non detto sotteso a tanti commenti è che fra noi e quel terribile male che è stato commesso non c’è alcun rapporto; se il male è fra noi è perché loro ce l’hanno portato.

Attenzione, qui non si vogliono trovare le solite trite e ritrite giustificazioni sociologiche a ciò che giustificato non può mai essere. Quello che si vuole dire è che non si può rispondere al male semplicemente confinandolo fuori da noi. È un esorcismo che non funziona. Non ci liberiamo dalla profonda ferita che è stata inferta alla nostra umanità affibbiando l’etichetta di bestie a tutti i delinquenti del mondo.

Sì, perché il male appartiene alla condizione umana, gli uomini possono commetterlo, a volte – la cronaca e la storia lo documentano in modo impressionante – con una malvagità tale da far scomparire dai loro volti i segni dell’umano. Ma uomini sono e restano. È un’evidenza che fa rabbrividire, è vero, ma dobbiamo tenerci il brivido. Non lo diciamo per concedere loro impossibili attenuanti generiche, ma per essere consapevoli che quel male non riguarda solo loro che l’hanno commesso e le povere vittime, i due fidanzati polacchi e il trans peruviano, che l’hanno subìto.

Quel male riguarda tutti noi. E anche se non c’è una ‘medicina’ che ne salvi l’uomo in modo automatico e definitivo, sarebbe bello se in rete, ogni tanto, tra tante certezze che producono solo odio (e tanti gattini) comparisse anche qualche domanda. Ad esempio su come sia possibile non essere come loro. Come il ritornello della canzone dedicata ad Auschwitz da un cantautore romagnolo che passa dalla consolante certezza di un “non è possibile essere come loro” alla più realistica e drammatica consapevolezza che “non è difficile essere come loro”.


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