La pre-comprensione in cui tutti o quasi siamo immersi vede in Antigone un’eroina della sempre attuale lotta della legge eterna contro l’arbitrio dispotico del potere, e in Edipo il simbolo del movimento che porta ogni uomo ad uccidere metaforicamente il proprio padre. Il merito di Luciano Violante e di Marta Cartabia è di essersi accostati alle due tragedie greche restituendoci una lettura di Antigone diversa rispetto a quella dominante dal dopoguerra in poi, ed una lettura inedita dell’Edipo re, liberata dalla gabbia psicoanalitica in cui il personaggio di Sofocle è stato tenuto prigioniero da Freud in poi. L’esplorazione dei due testi da parte di due giuristi molto diversi fra loro per formazione culturale ed esperienza professionale, diversi ma avvinti in un dialogo foriero di stimolanti contaminazioni, ha prodotto un prezioso libretto su Giustizia e mito, edito da Il Mulino, e l’altrettanto preziosa lectio magistralis con cui i due autori hanno aperto a Rimini nella Sala del Giudizio, la decima edizione del Festival del mondo antico. Violante non ha bisogno di particolari presentazioni, essendo ben nota la sua carriera di magistrato ed il percorso politico all’interno della sinistra che lo ha portato fino alla carica di presidente della Camera; forse meno nota è Marta Cartabia, una docente di diritto costituzionale di formazione cattolica che il presidente Napolitano ha nominato giudice della Corte Costituzionale, organismo di cui oggi è vice presidente.
Perché ancora oggi ci si appassiona a sentir parlare di Antigone e di Edipo? Perché nelle loro vicende sono presenti molti degli eterni dilemmi che affaticano il cuore dell’uomo e muovono le vicende storiche. Sono talmente eterni che negli interventi di Violante e di Cartabia, senza che essi facessero espliciti riferimenti, abbiamo visto scorrere tanti dei fatti e degli argomenti che oggi dominano l’attualità.
Violante ha voluto smontare il mito di Antigone buona e di Creonte cattivissimo. Creonte aveva ordinato che non fosse data sepoltura a Polinice, colpevole di aver ucciso il fratello Eteocle. Antigone si ribellò all’editto, seppellì Eteocle e fu condannata a morte da Creonte. Ecco perché, dopo l’esperienza dei totalitarismi del XX secolo, è invalsa la lettura di una Antigone eroina e di un Creonte feroce tiranno: vi si leggeva la rivolta del popolo contro ogni forma di totalitarismo. Secondo Violante il tema che pone la tragedia è in realtà il governo della città e la condizione di solitudine di chi governa. Antigone non è un’eroina perché ha una visione familistica dei vincoli che regolano la polis, mentre Creonte rappresenta la modernità, perché governa lo stato con principi secolari, secondo una determinata gerarchia di valori. La tragedia insegna che chi ha responsabilità politiche non può aprire un conflitto se non è in grado di risolverlo. A Tebe non c’era una corte costituzionale che potesse dirimere il conflitto insorto fra Creonte e Antigone, nella tragedia non c’è nemmeno un dio che intervenga a risolverlo. Il filo delle riflessioni ha infine portato Violante ad affermare che il processo penale non ha l’obiettivo di stabilire la verità dei fatti, ma di accertare la responsabilità, non sempre una sentenza rispecchia la verità oggettiva.
Ecco allora Cartabia che sostiene come nell’Edipo Re emerge il dramma di chi deve giudicare e discernere dove sta la responsabilità di un fatto grave. Tebe è afflitta dalla peste e da altri gravi mali, la città implora il re Edipo di liberarla ancora una volta come fece quando risolse l’enigma della Sfinge. C’è un responsabile, c’è un “impuro” da individuare, Edipo è deciso a scovarlo ma prima di iniziare la sua indagine si rivolge, diremmo oggi, ai collaboratori di giustizia, chiede che chi sa parli. Alla fine dell’indagine scoprirà il colpevole e scoprirà che l’impuro era proprio lui.
La sua corruzione non è di tipo economico e politico. Lui era fuggito da Corinto dopo che l’oracolo gli aveva detto “Tu ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre”. Edipo aveva chiesto chi fossero i suoi genitori, ma si era fermato a quella risposta e inorridito era fuggito. La colpa di Edipo, sostiene Cartabia, è una colpa tragica che sfugge alla sua autocoscienza. Emerge insomma la fallibilità della nostra condizione umana, simboleggiata anche dai suoi piedi feriti. La tragedia di Edipo ci mette di fronte alla ferita che impedisce alla nostra umanità di giungere ad una conoscenza perfetta. Cartabia ricorda la sua esperienza in Corte Costituzionale quando, in camera di consiglio, ogni intervento dei colleghi mette in luce un aspetto diverso sul fatto che si è chiamati a giudicare. La conoscenza è una procedura faticosa, i fatti sono difficilmente interpretabili, ed in ogni caso l’esito finale è sempre una conoscenza imperfetta.
Ecco perché spesso siamo insoddisfatti da una sentenza. Cartabia cita la Bibbia, il libro di Qoelet: “Non voler essere troppo giusto”. Che significa? Secondo la vice presidente della Corte Costituzionale, significa non dimenticarti della tua condizione umana, della fallibilità del tuo agire. La giustizia è allora giuris-prudemza, dove prudenza significa attenzione a tutto ciò che accade, e per rafforzare il concetto legge alcuni brani dell’elogio dell’imperfezione contenuto in un libro di Karl Popper (Miseria dello storicismo).