Il Meeting di Rimini? «E' innanzitutto un ambiente di vita, un ambiente morale. Non solo una serie di conferenze alle quali si assiste. - afferma il sociologo Salvatore Abbruzzese, docente di Sociologia della Religione all’Università degli Studi di Trento - È una modalità di attenzione al nostro Paese, a ciò che accade nel mondo, e soprattutto alla persona. Mi riferisco non solo ai volontari che sono di più di quel che appare, non solo ai ragazzi ed alle ragazze che vediamo all'opera ma anche a chi non sta nel front line ma ugualmente si spende con gratuità per questo evento». Abbruzzese sarà il protagonista dell'incontro conclusivo del Meeting 2019, dedicato alla presentazione del suo libro sulla storia quarantennale della manifestazione, in uscita da Morcelliana.
Cosa intende per ambiente morale?
«Chi arriva da fuori non può non chiedersi da cosa nasca una certa modalità di rapporto fra le persone, non può non interrogarsi su come le persone che realizzano il Meeting vivano e interagiscano fra di loro. A mio giudizio siamo di fronte ad un'esperienza di sensibilità morale che nasce dalla prospettiva antropologica ed educativa di don Giussani; il nucleo argomentativo sta lì. Nessuno poteva immaginarsi che da una prospettiva di questo tipo potesse nascere un'esperienza così articolata, così potente e così capace di conquistare credibilità anche quando il mondo cambia, i finanziamenti si dimezzano ed il gossip politico perde di qualità; anche quando cambiano i referenti politici, anche quando cambiano i pontificati. È una dinamica impressionante che suscita interesse».
Lei come ha studiato il fenomeno Meeting?
«In primo luogo ho svolto in lavoro di analisi dei documenti: cosa è stato detto al Meeting, che tipo di interventi sono stati fatti, cosa il Meeting ha ricercato, chi ha invitato. Il secondo passaggio è stata l'osservazione diretta: sono stato invitato per quattro volte, altri anni sono andato per conto mio. Conosco bene l'esperienza di Comunione e Liberazione per averci dedicato libri e articoli. Dall'osservazione metodica e dalla lettura dei documenti, ho visto che negli anni il Meeting ha acquisito una legittimazione culturale, testimoniata anche dalla presenza, da un certo momento in poi, dei presidenti della Repubblica. È interessante allora capire come questa legittimazione si sia strutturata, cosa abbia prodotto in termini di cultura, di lettura dei fenomeni emergenti. Il Meeting si è imposto con l'autorevolezza dei contenuti, ma anche per lo stile che non è fatto di contraddittori, né di talk show ma di conferenze seguite con un'attenzione unica da platee di dimensioni impensabili altrove. Il Meeting è uno sguardo aperto sul mondo; una vera e propria finestra sulla realtà. Può sembrare un’affermazione sproporzionata ma non lo è se si pensa chi sia venuto in questi 40 anni e come la manifestazione stia affrontando adesso situazioni nuove come la condizione persecutoria dei cristiani in Medio Oriente, il dialogo interreligioso, l’ondata immigratoria; ma anche come stia costituendo una narrazione nuova della storia e dell'identità nazionale».
Lei ha sottolineato la legittimazione istituzionale. Eppure a volte è sembrato che la presenza dei politici abbia oscurato la vera natura del Meeting, non crede?
«Da sociologo osservo che il Meeting ha fatto una scommessa incredibile; ha scommesso laddove tutti gli altri si sarebbero tirati indietro. Sappiamo come in Italia la dimensione politica sia onnivora e sia in fibrillazione e tensione continua. È difficile parlare di temi che concernono i valori primi e le domande dell’esistenza quando si è in presenza di un politico; è difficile che quest’ultimo non assorba l'attenzione, riducendo tutto alle tematiche di conflittualità immediata, ai “distinguo” tra partiti o all’interno di componenti dello stesso partito. Mi ha sempre colpito la discrasia fra il Meeting vissuto all'interno e i resoconti dei giornali il giorno dopo che parlavano solo di quest’ultima dimensione, come se tutto il resto non avesse la minima importanza. La capacità del Meeting di resistere alla politica, riproponendo le domande essenziali resta allora eccezionale. Ho studiato le domande che le personalità di prima linea del Meeting, gli organizzatori, hanno posto in questi anni ai politici: è emersa una consonanza immediata con le tematiche fondamentali che stanno dentro l'esperienza educativa di Comunione e Liberazione. Queste tematiche sono state costantemente riproposte anche quando, con un politico, sarebbe stato più facile andare sui temi consueti del vocabolario dominante. Il Meeting manifesta un capacità di gestire una dimensione che altrove sarebbe assolutamente prevaricante e monopolizzatrice. Questa è la spia che il Meeting ha qualcosa di diverso. Si capisce che c'è dietro qualcosa di solido che riesce a reggere il confronto».
E cosa è questo qualcosa di solido?
«La sostanza è nel senso religioso di don Giussani, che è attenzione commossa alle esigenze umane dentro il reale. È l'uomo che si interroga sul senso della propria esistenza e che, a partire da questo, diventa appassionato a tutto il mondo che lo circonda, non perché questi valga di per sé ma perché contiene segnali che rinviano a qualcosa d’altro. Don Giussani ha lanciato nel mondo persone in eterna ricerca. Il famoso “non state mai tranquilli” cosa voleva dire? Siate sempre in ricerca! Ha generato un'umanità che dentro i suoi mille limiti umani porta dentro sé un desiderio di comprendere, un entusiasmo semplice, sincero e immediato per tutto ciò che c'è nel reale, purché sia autentico e tenga conto delle domande fondamentali dell’esistenza, non le eluda. Questa sensibilità la gente del Meeting l'ha attinta da don Giussani, e va in contrasto profondo con il disincanto che oggi regna nel mondo».
In questi 40 anni il Meeting è cresciuto o manifesta segni di logoramento?
«Questa è una domanda chiave. È chiaro che se si confronta il Meeting degli anni 1980, 1981, 1982 con quelli più recenti si riscontra un impatto diverso sul mondo. Ma ricordiamo che 1980 era l'anno di Solidarnoșc, si era dinanzi ad un mondo in ascesa, pochi anni più tardi sarebbe iniziato quel processo di revisione che avrebbe portato nel 1989 alla caduta del muro di Berlino. C'era un mondo intero in movimento, verso una nuova alba. Era un universo, in Italia come altrove, pieno di energia. Il mondo ora è profondamente cambiato: in questo contesto il Meeting opera in una dinamica ancora più chiaramente esistenziale. La dinamica che non può essere quella degli anni Ottanta perché non siamo più in quell'Europa. È un momento in cui interrogarsi e il Meeting, che è una realtà viva, si interroga, registrando perfettamente un tale momento di rielaborazione. E lo si coglie guardando le dichiarazioni ufficiali che vengono rilasciate; ci sono i documenti che lo attestano. Anche gli stessi interventi delle massime cariche dello Stato cominciano a guardare al Meeting come a un luogo di energia morale. Se è possibile ancora un nuovo inizio, questo può cominciare solo da lì e non da altre parti. Il Meeting di Rimini è un luogo dove è in atto un costante tentativo di riavvio della volontà di ricostruzione morale di un intero paese».
Lei quindi non condivide l'opinione di chi parla di un ripiegamento spiritualista?
«Il rischio dello spiritualismo lo vedo piuttosto in altri movimenti. Le domande esistenziali sono carnali, bruciano sulla pelle. Se si vivesse in una dimensione puramente spirituale, cosa si inviterebbero a fare politici, sindacalisti, imprenditori? Conformemente al pensiero di Péguy il cristianesimo è un'esperienza carnale di vita concreta. E in ogni caso, a cosa mi servirebbe la risoluzione dei problemi concreti ed immediati se fossero separati da una consapevolezza del dove andare e del cosa costruire. E come sapere dove andare e cosa costruire se ignoro la mia origine, non solo storica ma anche antropologica, fino ad arrivare alla domanda essenziale che è quella che si chiede chi sia mio padre, di quale storia e di quale promessa io sia l’erede».
Valerio Lessi