I 19 martiri di Algeria, beatificati l’8 dicembre scorso, potevano tutti andarsene, ed evitare così il martirio. Invece sono rimasti. Perché? Nel testamento, padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Tibhirine, ha scritto: La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui”. Al Meeting ieri c’era padre Thomas Georgeon, postulatore dei martiri d’Algeria, che insieme a Javier Prades Lopez, rettore dell’Università San Damaso di Madrid, membro della commissione teologica internazionale che nei mesi scorsi ha pubblicato il documento sulla libertà religiosa come bene per tutti, è stato il protagonista dell’incontro su “Liberi di credere”.
Apparentemente la morte dei 19 martiri è stata una sconfitta: loro, che vivevano la loro fede come zelanti servitori di quel popolo, sono stati vittime del fanatismo. Eppure, ascoltando il commosso e semplice racconto di padre Georgeon, si capisce che la loro è stata una vittoria, provocata da una scelta di libertà. E si capisce ancora di più ciò che, in apertura dell’incontro, ha detto padre Prades e cioè che il primo modo per difendere la libertà religiosa è vivere pienamente la statura dell’umano, che è rapporto con il Mistero.
Quei martiri, ha sottolineto padre Georgeon, sono l’immagine di una chiesa che vive nella povertà, nella libertà e nella gratuità, che ha perso potere sociale e splendore, che vive solo per amore e servizio quotidiano a gente che non condivide la stessa fede. Così purificata, ha aggiunto, può essere ponte per un dialogo con l’Islam, consapevole di vivere una missione profetica, di creare clima e spazio per un dialogo con i musulmani, nella certezza che tutti siamo figli di Dio, opera delle sue mani, e che i figli di Dio si riconosceranno. È davvero un paradosso che da un’esperienza di martirio venga l’invito a creare clima e spazio per il dialogo. “È una chiesa e sono martiri dell’alterità, esprimono una vita totalmente votata a Cristo e al Vangelo, nel dono all’altro”.
Non è stato semplice incontrare l’altro in Algeria, specialmente nel decennio nero, quando la violenza e l’odio dominavano il paese. Una presenza che non ha avuto altra fonte che la croce di Cristo, che ha permesso di trasformare la morte in un dono fecondo di se stessi. Un altro martire, il vescovo Clavery, ha detto: “Siamo lì per il Messia crocifisso, non abbiamo potere ma siamo come al capezzale di un amico malato, al quale stringiamo la mano”.
Ed infine il punto centrale della testimonianza di padre Georgeon: “Questi martiri ci dicono che è assai difficile incontrare l’altro perché dobbiamo uscire dalla nostre zone di comodità e sicurezza. Possiamo essere ciechi di fronte a chi non è simile a noi, ma che è accanto a noi, perché spesso abbiamo paura. In questa cecità o ignoranza dell’altro, prima o poi l’altro si imporrà con la forza per essere riconosciuto nella sua differenza. Eppure l’altro ci è necessario, non posiamo vivere da soli, l’altro nella sua differenza è la condizione per rimanere vivi, perché non appena ci rinchiudiamo in noi stessi e con chi ci è simile, la morte ci aspetta. È l’altro nella sua differenza che ci tirerà fuori da noi stessi per farci vivere. È il rischio e il dramma delle minoranze”. Ma l’altro – ha insistito il monaco, - nella sua differenza, mi dice qualcosa sulla mia fede”. È davvero spiazzante e provocante la sfida che viene dai martiri algerini.
Nella libertà religiosa, aveva puntualizzato Prades all’inizio dell’incontro, presentando il documento sulla libertà religiosa, la posta in gioco è cosa è l’uomo, meglio ancora quell’ “Ed io chi sono?” di leopardiana memoria. Don Giussani aveva indicato nel rapporto con il Mistero la sorgente della libertà, ciò che permette all’uomo di non essere in balìa del potere. Non ci sarebbe la fisionomia del mio volto, non ci sarebbe il mio nome, senza questo rapporto con il Mistero. Tutti possono in qualche modo riconoscerlo, ma ancora più grave è la responsabilità dei cristiani che attraverso la grazia di un incontro sono arrivati ad averne consapevolezza. Ecco perché la prima battaglia per la libertà religiosa è vivere pienamente la statura dell’umano.
La seconda questione affronatata da Prades è la dimensione comunitaria dell’esperienza religiosa e il ruolo pubblico della fede. Nell’epoca post moderna è rimasta attuale la domanda sul ruolo pubblico della verità. E rimane da risolvere il nodo della falsa neutralità dello Stato di matrice liberale. La neutralità rispetto alla verità è spesso intesa come separazione dello Stato da ogni verità sostanziale, riducendo la funzione dello Stato solo a regole formali e di garanzia per tutti. Non si tratta di mettere in discussione le acquisizioni dello Stato di diritto, ma le nuove sfide di oggi (vedi per esempio il multiculturalismo e la presenza degli immigrati) pongono una domanda: è sufficiente che lo stato sia ridotto solo a regole formali e procedurali?
Per l’approfondimento, Prades ha rimandato alla lettura del testo. Senza però dimenticare un compito per ciascuno: se non si vuole essere parte del problema, piuttosto che la soluzione, il primo passo è vivere l’esperienza delle fede come esperienza di libertà.