“Dio viene nell’imprevisto”, ha scritto sul proprio blog don Andrea Turchini, parroco della Collegiata a Santarcangelo. Una riflessione dettata dall’epidemia di Coronavirus che sta cambiando la vita di tutti, andando ad incidere profondamente su ritmi di vita consolidati, insieme a preoccupazione per la salute e per le proprie attività. Anche il “mestiere” di parroco deve trovare nuove forme di espressione e di comunicazione. “E’ una situazione nuova, inedita, quella in cui ci siamo trovati – osserva don Turchini – Tutto è sospeso, le scuole, le attività parrocchiali. Anche la partecipazione alla Messa, che pure è un gesto fondamentale nella vita della comunità cristiana”. Che fare allora? “In questo tempo la prevalenza è agli incontri personali, c’è la possibilità di chiacchierate distese, di telefonate in cui ci si può soffermare di più del solito. Nel mercoledì delle ceneri abbiamo sospeso le celebrazioni straordinarie, però abbiamo avvertito che i sacerdoti sarebbero stati in chiesa tutta la giornata. Molte persone sono venute per confessarsi e per ricevere personalmente le ceneri. È una situazione che ci costringe a trovare modalità nuove per valorizzare l’esperienza di fede”.
L’imprevisto di questa epidemia può quindi avere un risvolto positivo? “Siamo presi dalle nostre attività e dai nostri programmi, ci piace avere tutto sotto controllo e ci dimentichiamo, come spesso ricorda papa Francesco, che la realtà è superiore alle nostre idee e ai nostri programmi. Dio viene nell’imprevisto e occorre saperlo cogliere in una realtà che ha certamente anche aspetti drammatici, fatti di paura, di disagio, di dolore. Si tratta di riconoscere che anche nelle situazioni impreviste, che non avremmo voluto, può venire qualcosa di buono. Dio, di solito, fa molta fatica ad infilarsi nei nostri programmi; non gli concediamo molto spazio. Egli viene nell’imprevisto per rinnovare la nostra vita.”.
C’è un altro aspetto che don Turchini mette in evidenza. “Questa situazione mette in luce la nostra fragilità umana. A volte le strutture, le attività, possono diventare uno schermo che oscura l’invocazione della salvezza, che invece è alla base della nostra fede. Quando al mattino recitiamo le lodi non a caso cominciamo dicendo Dio vieni a salvarmi. L’esperienza della fragilità ci riporta all’essenziale, a riconoscere che solo Dio è salvatore”. Secondo il parroco di Santarcangelo, “alcune persone, le più fragili psicologicamente, sono spaventate e manifestano grandi preoccupazioni. Altre, ne ho avuto riscontro, la colgono come una provocazione a ripensare la propria fede”.
Da Santarcangelo a Rimini, Marina Centro, parrocchia di san Girolamo. “Da subito – racconta il parroco don Roberto Battaglia - in questa vicenda ho riconosciuto una sfida radicale: una situazione che sfugge al nostro controllo, in cui è a rischio la vita di tanti, la nostra salute e il benessere stesso del popolo, ci provoca a chiederci quale sia il nostro reale punto di consistenza, ed è la domanda che ho subito condiviso con gli amici della comunità parrocchiale tramite i contatti telefonici e personali, sui social e attraverso il sito della parrocchia, a cominciare da lunedì 24 febbraio diffondendo le prime indicazioni dei Vescovi della nostra regione, assieme all’altra questione che emergeva in quei giorni, in cui dominavano alcune reazioni irrazionali: cosa vince la paura?”.
Una domanda che in molti, alle prese con il bombardamento mediatico sull’epidemia, si pongono. “Mi sono reso conto che, rispetto a un certo clima di smarrimento e confusione, - afferma don Battaglia - la provocazione di queste domande apre uno spiraglio e, superata la reattività, inizia una condivisione più reale della propria vicenda umana. Col passare dei giorni, prendendo sempre più coscienza della gravità della situazione, mi è sempre più chiaro che il primo modo di essere vicini alla gente da parte di noi preti e della comunità cristiana è quello di prendere sul serio fino in fondo le indicazioni che ci vengono date dalle autorità competenti e dai nostri vescovi. Sono francamente insopportabili e intollerabili taluni atteggiamenti di superficialità e talvolta persino di polemica nei confronti delle scelte compiute riguardo alle necessarie limitazioni nei ritrovi per le liturgie e per le varie attività pastorali. In una situazione di bisogno e di grande prova per il nostro popolo, nella quale non mancano episodi di intolleranza e atteggiamenti di sospetto nei confronti dell’altro, percepito talvolta come un potenziale nemico, occorre essere uniti, amando la vita e il bene di tutti prima di ogni altra preoccupazione o considerazione, riconoscendo umilmente di aver bisogno di tutti, valorizzando l’impegno di chi si trova in prima linea in questa emergenza sanitaria. Il cristianesimo è innanzitutto lo sguardo appassionato di Cristo all’uomo concreto e, senza questa passione per la vita degli uomini e le donne del nostro popolo, l’annuncio cristiano si riduce ad una ideologia come tutte le altre”.
Tutto è saltato, anche nelle parrocchie, dalla liturgia agli incontri di catechesi, fino alle benedizioni pasquali programmate proprio per questo periodo. “Nelle nostre comunità e, non di rado, un certo devozionismo e un certo attivismo – rileva il parroco di san Girolamo - si sostituiscono al rapporto con Cristo. Questa drammatica circostanza è l’occasione per uscire dalla nostra comfort zone, prendendo sul serio la nostra umanità e condividendo la domanda di tutti: ma se non posso aggiungere un minuto solo alla mia vita e a quella di una persona cara, se tutte le mie sicurezze possono essere spazzate via da un virus, cos’è dunque la vita? Per noi preti e per le nostre comunità, lungi da ogni tentazione clericale, è l’occasione di mettersi in gioco “da laici”, non come coloro che pensano di avere tutte le risposte, ma come mendicanti assieme ad altri mendicanti, come gente che ha bisogno di tutto e di tutti. Passando dall’essere sempre in mezzo alla gente – con riunioni e lezioni, dialoghi e attività – ad un certo isolamento, necessario per ridurre la possibilità di contagio, possiamo tutti chiederci in questa “solitudine”, come il Pastore errante di Leopardi, “Ed io che sono?”. E così questa “solitudine” può essere l’inizio di una condivisione reale dell’umanità di tutti, da cui può fiorire una solidarietà reale”.