È possibile che nel contesto storico attuale, fra Covid, crisi economica e incertezze sul futuro, la parola speranza non sia una parola vuota? Che differenza c’è fra la speranza e un generico ottimismo? Come si può trasmettere speranza e non paura ai propri figli? E il cristianesimo che contributo originale può portare? A Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, il presidente del Meeting Bernard Scholz snocciola una dopo l’altra le domande che la parola speranza suscita nel cuore degli uomini.
Il contributo di Carrón, che già si era espresso durante il lockdown con un e-book su Il risveglio della’umano, aggiunge nuovi contenuti alla riflessione di questo Meeting 2020.
“Sperare – osserva Carrón citando Pavese (“Qualcuno ci ha promesso qualcosa?) – è costitutivo dell’essere umano. Quando però la realtà diventa implacabile e lancia una sfida, è messa alla prova la consistenza della speranza”. L’ottimismo è diverso, è una predisposizione psicologica a vedere i lati positivi della realtà, ma non ha durata, non resiste, basta nulla per cambiare umore. L’ottimismo in sostanza è un surrogato della speranza. “Una circostanza come il Covid ha fatto emergere se la nostra speranza era un semplice ottimismo o aveva una capacità di durata”.
Durante il lockdown si “sperava” che durasse poco e che si tornasse presto alla normalità. Però aspettando il tempo che passa non si vive il presente. “Tutto dipende da qual è il nostro punto di appoggio che abbiamo per vivere qualsiasi circostanza. La speranza ha bisogno di una ragione. Quando non ho questo punto di appoggio, aspetto che la tormenta passi. Ma è una bella fatica alzarsi ogni mattina aspettando che passi la giornata” L’alternativa, secondo Carrón, è stare di fronte ad ogni situazione, bella o brutta che sia, aperti all’imprevisto. “Sorprenderci in azione con una posizione che noi stessi non avevamo preventivato”. La questione diventa allora capire quale sia questo punto di appoggio evocato dal sacerdote. “In certe situazioni ognuno fa il test del cammino che ha fatto nella vita. Se a qualcuno, diceva Giussani, è stata risparmiata la fatica del vivere, non avrà la capacità di veder vibrare tutta la sua ragione. Chi invece ha attraversato sfide, scopre di avere risorse che altri non vedono. Il punto è evitare che la vita passi senza che ci faccia crescere. Un medico mi raccontava del bel rapporto nato con i colleghi durante l’emergenza, ma finita quella quasi si faceva fatica a salutarsi. Come se l’esperienza vissuta non fosse basata su un punto di appoggio che resiste nel tempo”.
Il punto di appoggio – ecco il punto centrale della riflessione di Carrón - è la scoperta di qualcosa di diverso che esiste nel presente e che suscita uno sguardo diverso su futuro. “Uno può arrivare a 50 anni senza più aspettarsi nulla dalla vita e scorgere nel brillio degli occhi di un altro una intensità di vita che ridesta la speranza. E comincia a seguirlo. Quando penso che la partita sia chiusa, vedo qualcosa che mi spalanca. Cos’ nasce la speranza.” Il riferimento è all’insegnamento di don Giussani: “La speranza è la certezza del futuro in forza di una realtà presente”. Questa presenza è qualsiasi realtà umana in cui emerge un modo diverso di stare di fronte alla realtà. Come i discepoli che erano in grado di affrontare la tormenta se c’era la presenza di Gesù con loro. Carrón cita i suoi studenti che erano certi dell’amore della mamma perché, dopo averlo sperimentato, non potevano immaginare che venisse meno. “Se non c’è la certezza del bambino che si fida della mamma, la speranza è una parola vuota, non è quella speranza che non delude di cui parlava san Paolo”. Cristo ha posto nella storia un fatto che è all’origine della nostra speranza. Carrón cita lungamente la storia dell’intellettuale basco Mikel Azurmendi, presentata lunedì sera al Meeting, che ascoltando un giornalista alla radio che manifestava una posizione umana diversa, è partito per incontrare, uno dopo l’altra, persone che aveva una modalità di stare nel reale, fino a scoprire che la Presenza di cui parlano i cristiani continua oggi come duemila anni fa.
È una speranza che fa i conti anche con l’attuale contesto storico, così segnato dalla sfiducia. “E’ venuto meno quello che Benedetto XVI chiamava il progresso accumulativo. La vita umana ha bisogno di un nuovo inizio. Questo può avvenire se la consistenza è posta in qualcosa che è più potente di qualsiasi crisi. Pensiamo ai figli, solo se abbiamo una speranza da comunicare loro, possiamo non trasmettergli la paura nel sangue. Quando invece dovremmo accompagnarli con la nostra speranza”.
Carrón ritorna sul tema dei giovani. Il rischio è quello di risparmiare loro la fatica del reale, di difenderli dalla minaccia della realtà. Quando invece si tratta di aiutarli a scoprire che qualsiasi difficoltà può essere l’opportunità di scoprire nuove possibilità. “Hanno bisogno di adulti che guardano al futuro senza essere determinati dalla paura”.
Ultimo punto decisivo: ma quella che offre il cristianesimo non è una speranza consolatoria, che distoglie da un impegno dalla realtà? “No, il cristianesimo non chiude in un cerchio chiuso dove si sta più o meno bene. Risveglia l’uomo e un uomo risvegliato mette le mani in pasta. La promessa cristiana è il centuplo quaggiù. Non so che cristianesimo abbiano visto quelli che lanciano queste accuse. È nostra responsabilità mostrare che è un avvenimento che compie l’uomo”.