Nei giorni scorsi il consigliere di Patto Civico Mirco Muratori, dopo due anni di silenzio sulla vicenda nomadi (noi avevamo fatto un punto a giugno su questa ‘strana’ sospensione), ha sorpreso tutti dichiarando fallito e superato il cosiddetto “progetto delle microaree”.
Il progetto, per arrivare allo sgombero del campo nomadi di via Islanda, prevedeva la sistemazione delle famiglie sinti (il destino dei rom non è mai stato chiarito) in alloggi costruiti in piccole aree, 5 per l’esattezza, ognuna in un quartiere diverso. Secondo Muratori il Comune avrebbe ormai abbandonato l’idea e si starebbe orientando verso la ridistribuzione dei cinque nuclei familiari in altrettanti appartamenti messi a disposizione da Acer.
Che quella di Muratori sia una iniziativa personale per anticipare e disinnescare le critiche di mollezza e remissività verso il Pd che gli elettori potrebbero rivolgergli alla prossima tornata elettorale oppure una sorta di rivalsa per il rospo ingoiato a suo tempo, avendo dovuto accettare una soluzione non condivisa, o, invece, un dispetto del suo gruppo in vista della nomima del successore di Gnassi, non lo si può sapere.
Di certo, l’esternazione di Muratori conferma che la disciplina che vige nelle stanze del potere locale è, diciamo così, piuttosto sfilacciata (più simile alle abitudini degli attuali uffici vaticani che a quelle quasi militari del vecchio PCI) e anche, pur in modo indiretto, che la linea che segna la divisione all’interno del Pd tra Gnassi e, dall’altra parte, il Melucci ‘semplice militante’, con Petitti e ‘gli amici del partito’, si ripete praticamente su tutti i temi dell’agenda amministratiiva e non solo sui massimi sistemi o sull’idea di quale candidato sindaco si debba proporre a questa città.
In ogni caso, se per questioni di consenso legate alle varie elezioni che si sono succedute in questi anni si decide di insabbiare il problema e, con quello, le proprie stesse scelte, non si può pretendere che per gli stessi motivi elettorali qualcuno prima o poi non presenti il conto.
Infine, per chiudere la cronaca, non si può non citare il commento risentito delle opposizioni che non ci stanno a vedersi scippare da Patto Civico anche solo la bandiera della soluzione “appartamenti”.
Perché appunto di una bandiera si tratta.
Senza tornare su tutti i peccati di metodo della maggioranza, che spesso sceglie atteggiamenti muscolari, pretendendo appoggio e quasi sudditanza, quando almeno a volte la condivisione con opposizione e cittadini potrebbe aiutare la soluzione dei problemi, sarebbe banale ridurre tutta la vicenda a una alternativa tra appartamenti e casette.
Quale sarebbe infatti, dal punto di vista della convivenza, la differenza tra una microareea e un condominio? Non saranno comunque vicini di casa di persone che abitano già lì? Vicini con una casa propria o vicini di condominio, cosa dovrebbe cambiare? Siamo sicuri che le persone che vivono negli edifici che saranno prescelti accetteranno l’arrivo delle famiglie sinti? A quel punto, di fronte a nuovi comitati, spaventati dalle prossime elezioni, si lascerà di nuovo tutto come sta o si faranno intervenire i vigili?
Ma forse la proposta degli appartamenti si basa sul fatto che chiunque abbia ricevuto gratis dall’amministrazione un alloggio non possa permettersi il diritto di protestare. Un convincimento che peraltro non considera il fatto che Acer non possiede intere palazzine e che invece gli appartamenti si trovano separati in tanti edifici diversi all’interno di condominii ‘normali’. Chissà che alla fine non si decida di destinare una intera struttura – come le buone vecchie case popolari – esclusivamente a queste famiglie e alle altre persone problematiche o poco gradite che ci troveremo a gestire in futuro: praticamente un campo nomadi verticale assolutamente innovativo.
La domanda è dunque quale sia il problema a cui vogliamo trovare una risposta. Se il nostro problema è solo lo sgombero del campo di via Islanda lo si potrebbe probabilmente ridurre a una questione di polizia, così come per impedirne la nascita di nuovi nel futuro; se invece in ballo c’è la comprensione e l’affronto di dinamiche di afflusso, di convivenza e di integrazione tra culture diverse, problema che non è in calo ma in deciso aumento, che riguarda i nomadi, i nuovi immigrati e anche le seconde generazioni, ma non solo, allora occorrerà allargare lo sguardo.
Anche perché, in questa situazione, non sono coinvolti solo i partiti, solo i comitati, solo quelli di via Islanda, ma tutti i cittadini di Rimini. E non solo quelli attuali; il modello che sceglieremo, le pratiche che avvieremo daranno vita alla città nella quale vivranno i nostri figli. E tutti abbiamo il diritto di pretendere l’avvio di una politica sociale ragionevole, che guardi al futuro, che non nasca solo da manovre elettorali.
Lo smembramento del campo nomadi, con la separazione delle famiglie che vi abitano, oltre a una doverosa azione di ripristino delle regole, deve poter essere la possibilità per loro di pensarsi come cittadini e non più come componenti di una ‘tribù’ isolata. Che questo accada con una casetta o con un appartamento non può diventare simbolo di una battaglia ideologica inutile, ma solo un primo passo (e vanno bene entrambi). Che la soluzione scelta comprenda un accompagnamento da parte del sistema e un controllo del rispetto delle regole da parte dei ‘nuovi residenti’, dalla frequenza scolastica all’uso delle abitazioni, deve poter essere la possibilità per i ‘vecchi residenti’ di superare le paure e i sospetti, certi che l’amministrazione della cosa pubblica non li lascerà soli in questo processo.
E se, come dice papa Francesco, e come sappiamo bene, “le vicende umane e storiche e la complessità dei problemi non permettono di risolvere tutto e subito”, di certo non è possibile da soli. Al massimo nasconderli o farne solo una bandiera.
(rg)