Rimini, elezioni 2021. Primo, chiedete ai candidati perché lo fanno

Mercoledì, 07 Ottobre 2020

Se è pur vero da sempre che non è l’uso del potere a logorare ma la sua mancanza, la frustrazione di chi si trova a non contare niente nei vari organi amministrativi è certo più forte ed evidente in questo nostro tempo, che ha ormai dimenticato le appartenenze identitarie del passato; sia per la debolezza delle motivazioni che portano alla politica sia per la stabilità del sistema attuale, che, tranne rare eccezioni, costringe ad aspettare cinque anni per ogni nuovo tentativo.

Così, dietro gli atteggiamenti ‘inquieti’ di chi sta all’opposizione, di destra o di sinistra che sia, dietro il tentativo di trovare uno spazio sui giornali, di approfittare di ogni protesta o sussulto dell’elettorato, si riconosce facilmente la frustrazione, il logoramento, a volte anche il rancore, di chi lamenta l’ingiustizia del ruolo cui è ridotto, certo non consono alle proprie capacità, se non direttamente l’inettitudine degli elettori che hanno scelto ‘gli altri’.

Ma se la conquista del potere da parte di “chi non ce l’ha” o, all’opposto, la sua conservazione sono il motivo fondante del dibattito e dello scontro tra partiti e schieramenti, forse è interessante soffermarsi sulle motivazioni più strettamente personali dell’agire politico, e, appunto, sulla loro debolezza; su quale sia oggi, in questo momento storico specifico, il fulcro dell’impegno pubblico e il suo senso.

Tra i diversi tipi di logoramento, l’assenza di un riconoscimento delle proprie virtù, ad esempio intellettuali o morali, rappresenta il caso forse più tipico nel campo dell’opposizione locale di centrodestra. Saltando da un partito all’altro, o anche a qualche lista civica, sempre cercando nuove occasioni, un piccolo manipolo di persone continua a pretendere una opportunità per dimostrare le proprie doti: da una parte generando un tale traffico tra una sigla e l’altra “che neanche a San Marino”; dall’altra, bloccando ogni possibilità di rinnovamento non solo generazionale. Insomma, tutti in fila come tanti precari della scuola a litigare su quali siano i criteri e i punteggi da associare ai diversi titoli di ognuno.

A sinistra va di moda altro. Abituati ad averlo, quando gli viene tolto in sede elettorale, i nuovi ‘senza potere’ riescono a malapena a celare l’indignazione per l’incompetenza degli elettori, e forse anche qualche strana combutta con i nuovi vincenti; come una specie di tradimento che non avrebbero mai potuto immaginare – e poi con gli ultimi arrivati! – da parte di chi aveva ricevuto fino a quel momento tutte le loro cure.

Per la ‘terza parte’, quella società civile che i partiti considerano solo come un serbatorio di riserva cui attingere all’occasione, quale sia il sentimento che assume la mancanza di potere è ancora più evidente. I prescelti si mettono infatti fieramente al servizio di un progetto di ‘salvataggio’ della città, poi, dopo qualche tempo sui banchi scomodi della minoranza, cominciano ad annoiarsi e si accorgono di avere cose più importanti da fare.

E così arriviamo all’oggi, al solito teatrino delle candidature: sì, dal partito, no, dalla società civile; un esperto, no, un giovane, anzi, una donna; e così via.

Almeno, quando l’esistenza del popolo era evidente, funzionava anche una meccanismo di autoregolazione e di selezione per cui tutti, i candidati e la ‘gente’, condividevano comunque una certa fede o una ideologia che arrivava fino al dettaglio della vita. In questo tempo, il massimo di aggregazione cui ci si riferisce sembrano essere i comitati che nascono contro qualsiasi cosa oppure qualche gruppo di consumo, sportivo o alimentare o magari culturale che sia.

Tanto che gli atteggiamenti dei partiti in questa situazione, almeno i più tipici, vanno dalla scelta autosufficiente e ‘militare’ della Lega, con una carriera ancorata alla militanza, coi banchetti come sanzione di appartenenza (tranne però le varie eccezioni che ordina il ‘capo’), a quella rituale, quasi liturgica, del Pd, che evoca l’apertura alla città con parole sempre uguali, ripetute quasi ossessivamente, come una formula magica alla quale in fondo non sembra credere nessuno.

Radicamento negli interessi per chi governa, radicamento nelle proteste estemporanee per chi è all’opposizione: è dunque questo il massimo che noi della base, come si diceva una volta, possiamo avere dalla politica?
Troppo facile cavarsela ripetendo che fare politica è l’affermazione di un valore, il popolo, ad esempio, oppure la giustizia sociale, addirittura la libertà e chiedere a qualcuno di rifarci il discorso; perché i valori decadono, e non tanto per incoerenza ma per cristallizzazione, perché vengono fissati uguali a se stessi una volta per sempre, come statue che non possono parlare; una caduta “dalla mistica alla politica”, direbbe Péguy.

Per questo la domanda più rivelatrice cui ogni prossimo candidato dovrebbe rispondere, consigliere o sindaco che sia, è sul motivo per il quale ha deciso di presentarsi, prima ancora di elencare cosa vorrebbe fare se fosse eletto.
Perché vorremmo essere sorpresi da ciò che vede della società, da ciò che vive e di cui si fa 'forte'; come fa a sperare in una città migliore, cosa gli fa voler bene alla gente e come ogni giorno vuole già bene alla gente.
Perché gli occhi con cui sa guardare la vita che ha intorno ci diranno che persona è realmente, se sa riconoscere qualcosa di nuovo, di positivo, di inaspettato o se ama solo le proprie idee; se sa vedere il bisogno quando gli va incontro, se è capace di farsi ‘interrogare’ da tutto e da tutti ogni giorno da capo, di nuovo, di continuo. Se vive aspettando di prendere il potere o vive comunque, e intorno a lui il vivere di tutta la città può essere favorito, con o senza potere.

Più che uomini coerenti con le proprie idee, che riducono tutto alle proprie idee; più che leader carismatici e intelligenti, che riducono tutto alla propria gratificazione - e non parliamo poi degli uomini di partito, che rispondono più al partito che ai cittadini - ci basta un uomo vivo o, ancora meglio, un uomo libero, che non abbia bisogno del potere o della gratificazione o di un ordine di scuderia per essere vivo, per trovare le ragioni del suo fare politica, per servire noi, la ‘sua gente’; solo impegnato lealmente con se stesso per potersi impegnare per gli altri.

[rg]