Una “lezione folgorante”: così il vescovo Lambiasi ha definito la parabola del buon samaritano durante il suo tradizionale Discorso alle Autorità per la festività di San Gaudenzo, una riflessione che ha seguito la traccia dell’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, e si è conclusa con un invito alla buona politica.
E certo, la lezione di questa parabola, è una lezione anche politica: non appena un argomento del catechismo o una ramanzina sulla buona condotta e i buoni sentimenti, ma una vera e propria rivoluzione culturale e politica, una sorta di rivolgimento del pensiero di ogni buon fariseo - come tutti siamo -, sempre in cerca di regole dietro cui nascondersi e, come scrive Eliot, di “sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono”.
Commenta infatti Lambiasi. «Da notare che allo scriba che aveva chiesto al Maestro: “E chi è il mio prossimo”: Gesù risponde con una contro-domanda: “Chi ti sembra si sia fatto prossimo al malcapitato?”. La lezione è folgorante: il tuo prossimo non è chi è prossimo a te, ma colui al quale ti fai prossimo tu.»
Una domanda, chi sia colui al quale vogliamo farci prossimi, che ci mette in discussione, ci costringe a indagare il nostro cuore, ma la cui risposta, e qui sta il suo aspetto folgorante, non si troverà in una indagine sociale o pensando a cosa ci commuova maggiormente tra i mali del mondo.
Chi sia questo prossimo, sarà invece una scoperta per ognuno. Certo, l’educazione che abbiamo ricevuto, i valori in cui crediamo, ma il gesto del buon samaritano ha la potenza dell’atto libero e imprevisto, che rompe lo schema dei comportamenti normali, quelli stabiliti da una appartenenza etnica, religiosa o politica, e, più, da quelle ‘convenienze’ che garantiscono il proprio interesse e la tranquillità.
Una rottura che può accadere in qualsiasi momento della nostra giornata, che riguarda il vicino di casa o il collega di lavoro o lo sconosciuto che ci pesta un piede sull’autobus. E non conta la classe sociale, il colore della pelle, se sia stato derubato di tutto o sia invece il ladro che ci sta derubando (e basta rileggere le ultime parole che l’anziana signora rivolge al bandito che sta per ucciderla in “Un brav’uomo è difficile da trovare” di Flannery O’Connor).
Perché il buon samaritano non è un filantropo, uno che appartiene a una qualche organizzazione umanitaria, qualcuno che ha scelto di fare del bene a chi venga assalito dai briganti per la strada; è invece un uomo qualunque, colto nel momento in cui la sua umanità si rivela di fronte alla provocazione, alla sfida, al colpo sferrato da un pezzo di realtà particolare, e anche minima, che gli accade davanti.
Così, la rivoluzione che la parabola introduce non riguarda la scoperta di persone gentili e generose, che - certo - sono tante, ma la ‘rivelazione’, ancora più sorprendente, che ognuno può essere ‘quel’ samaritano; tanto che il valore di quell’atto inusuale di rottura consiste proprio nella sua imprevedibilità, in quel suo essere inatteso: un gesto, piccolo o grande che sia, che vince in noi l’abitudine, il pregiudizio (non solo sugli altri, ma anche su noi stessi), che sovverte le regole borghesi o di ‘mercato’; e le vince in modo improvviso, diretto, come un soprassalto: un “imprevedibile istante” per cui un uomo, uno di cui non l’avremmo mai detto, oppure perfino noi stessi, si mostra più grande delle sue capacità, della sua coerenza, dei suoi stessi valori e anche della sua storia. O, come dice don Oreste, più del suo errore. Anche il fariseo si può fare ‘samaritano’.
Questa possibilità affermata, e gridata, è la rivoluzione più importante in un mondo che non crede più in se stesso, che dubita del proprio cuore, della propria umanità; che sceglie di non desiderare ‘cose’ grandi perché sente di non esserne degno, di non avere chi possa ascoltarlo e sostenerlo.
Perché insomma la differenza tra il filantropo, l’impegnato, il volontario (per carità, tutte persone onorabili e di cui c’è un gran bisogno) e il buon samaritano è la stessa che esiste tra una morale lodevole e l’amore, tra le regole da rispettare, religiose ma anche sociali, e l’atto coraggioso di un uomo capace di fermarsi - anche solo una volta nella vita - di fronte al bisogno, al dolore o anche a qualcosa di speciale che succede, che in qualche modo lo colpisce e lo sorprende (e chissà perché mai proprio quella).
Quell’uomo, in quell’istante, sarà felice, e un giorno - pensando a quel momento in cui la sua umanità gli si è rivelata nella sua grandezza - potrà insegnare ai propri figli a guardare la vita con una speranza nel cuore, e che nella vita c’è sempre un ‘prossimo’ da riconoscere e una ‘misura’ più grande di quella che il mondo, il suo sistema di consumi e di gratificazioni, ti induce a credere.
Qui, nell’evidenza contagiosa di una umanità che si scopre e, insieme, si rivela, sta il collegamento anche con la politica.
Perché volentieri seguiremmo qualcuno che avesse fatto, almeno una volta nella vita, l’esperienza del samaritano; non tanto perché sarebbe più buono, ma perché avrebbe imparato cosa vuol dire essere libero e rompere gli schemi; e come, per essere un buon amministratore, non bastino soltanto le buone idee, una seria programmazione, un potere da gestire - che certo sono indispensabili -, ma occorra sempre farsi sorprendere dagli altri e pure da se stessi. Come scrive Jean Guitton, “ragionevole è colui che sottomette la propria ragione all’esperienza”: perché la vita degli altri non ci passi accanto senza ‘toccarci’, per essere più ‘grandi’ dei nostri ragionamenti e dei nostri “sistemi perfetti”.
E questo è certo il metodo migliore per scoprire quali tesori di umanità e quali bisogni ‘nasconda’ la nostra città; e anche per governarla.
[rg]