Da giovedì 28 gennaio sarà in libreria “Prima dei fatti. Un diario in pubblico”, un libro di Sergio Zavoli, con l'introduzione di Marco Tarquinio, la prefazione di Gianfranco Ravasi e testi di Rosita Copioli.
Prima dei fatti è il titolo della rubrica di Sergio Zavoli apparsa quotidianamente sulla prima pagina di «Avvenire» negli ultimi mesi del 2015. Un inatteso diario in pubblico, nel quale il grande giornalista intrecciava con delicatezza e sapienza i fili della memoria e dell’attualità, in un continuo susseguirsi di incontri, divagazioni e improvvise accensioni poetiche.
Riunite ora in questo volume, le parole di Prima dei fatti restituiscono una «riserva di umana ed esplicita libertà», come sottolinea nella sua introduzione il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio. Sono, inoltre, la conferma di una vocazione alla scrittura nella quale l’urgenza della cronaca va sempre di pari passo con la profondità e il nitore della letteratura, secondo la dinamica – per molti aspetti irripetibile – indagata da Rosita Copioli nel saggio che suggella questa edizione. Ma Zavoli era anzitutto «un credente nel senso “grammaticale” del termine», sostiene il cardinale Gianfranco Ravasi nella sua appassionata rievocazione dell’«amicizia implicita» con il più raffinato dei nostri reporter: «il participio presente ammonisce, infatti, che non si crede una volta per sempre». Anche di questa inquietudine spirituale le pagine di Prima dei fatti rendono limpida testimonianza.
Qui di seguito, alcune pagine tratte dalla postfazione, nelle quali Rosita Copioli ripercorre in particolare l’opera poetica di Zavoli.
Cronache di un poeta
di Rosita Copioli
(…) Come i libri di prosa hanno affiancato il mestiere del cronista raccontando, i sei libri di poesia (usciti con Mondadori, e anche il settimo, inedito) ne traducono il senso profondo, in quella «nitida coerenza tra pensiero e linguaggio» di cui Carlo Bo aveva pronosticato la lunga maturità della vocazione, e la luce «ancor più dichiarata e pura»: spettava loro una «disposizione verticale», perché quei versi «sono di materiale puro, derivato per un processo segreto e misterioso dalla parte più nobile del suo spirito». Grondano di vissuto, ma dal suo interno: teneri quadri familiari, luoghi, adolescenza, guerra, esperienze tragiche, testimonianze, meditazioni su realtà più segrete si intrecciano in una tessitura fitta di corrispondenze, in ricordi infinitesimali, concreti, precisi, sempre pregnanti e metaforici, secondo la lezione di Montale, che ossificava e concentrava gli oggetti di Pascoli, gremiti di anime. Nel vaglio che raffina le esperienze descritte, Zavoli le trasforma in realtà di altra sostanza. Gli è possibile farlo, dopo avere «imparato a essere mortale, / a percepire anche la trascendenza verso il basso, / la tua santa materia» - come scriveva a conclusione de L’infinito istante (2012), dove la «santa materia» di Teilhard de Chardin conforta la lode e il desiderio di prolungare la vita: «lasciami ancora un po’ gli uccelli / dentro i rami».
I primi tre titoli indicano il punto di partenza: la virtù della discrezione, cuore della civiltà contadina che è stata semidistrutta dalla seconda guerra mondiale (Un cauto guardare, 1995, In parole strette, 2000, L’orlo delle cose, 2004). Il padre e la madre appartengono a una cultura salda al Vangelo – la mano del padre è guida e nido dove granisce la piccola mano del figlio; i gesti protettivi della madre gli insegnano a stare all’orlo delle cose, pago del poco che serve: «e ancora cerco un alito di me annidato / a quella pace chiara, taciturna.». Gli ultimi tre titoli, da La parte in ombra (2009) a L’infinito istante fino a La strategia dell’ombra (2017) approfondiscono e assolutizzano il tema dell’ombra, la realtà centrale in tutti i libri di Zavoli, nella sua doppiezza e ambivalenza, terribile insegna araldica dell’uomo e della poesia, essenza della caducità: «sogno di un’ombra è l’uomo», scriveva Pindaro; forse un’origine, come pensava Jorge Luis Borges. La parte in ombra ne è una metamorfica declinazione in ogni grado di senso e metafora, dalla notte della luna amorosa, dolcezza di madre, Iside e Maria, al suo opposto: tenebra atra, estraneità generatrice di mostri: Male. L’ultimo, La strategia dell’ombra, la rende protagonista assoluta.
Il «padrone di tante voci umane – maestro del “mestiere di chiedere”» senza «alzare i toni», è ancora di fronte alla sfida che sempre gli suscita un «sacro allarme»: «bastava una lingua di chiarore / per stare nel mistero del confine / all’infinito bivio». Ancora è d’accordo con gli antichi Greci e Cioran, per il quale né l’atarassia in vita, né il nirvana, sono desiderabili, perché l’uomo è vivo, e vero, soltanto nella sua inquieta gioia-dolore, affidata allo scorrere del tempo mortale. Ancora è l’uomo che sta sulla soglia, la cui fede «non cola lungo i ceri, non conosce il viola del martirio», ma sosta su un punto del varco, «come le foglie contro gli scalini». Perlustra la tenebra incombente: che cosa è la parte di ombra con cui conviviamo? Come ne domiamo la terribilità? Perché l’ombra si allontana ma ci precede, legata all’eco o sembianza-alterità?
Dopo le impossibili utopie, le domande estreme, le hybris di scienza e potere, le invocazioni per la pace e alla pietà, testi bellissimi come quello sul bambino spiaggiato, che fra i tanti, il mare dondola e consegna (e compare anche qui, in uno dei primi “mattutini”, il 12 ottobre), come in tutte le sezioni conclusive dello schema triadico – al culmine la figura di Cristo – indirizza a Francesco la fides infirma di Agostino e di sua madre. Porta in congedo la speranza delle lucciole nuziali, «il simbolo che dica / vincerà la vita». (…)