Tutto lascia prevedere che il voto di domenica e lunedì manderà al ballottaggio Jamil Sadegholvaad ed Enzo Ceccarelli. Per conoscere il nome del nuovo sindaco di Rimini sarà quindi necessario attendere altre due settimane. Ma la sera del 4 ottobre sarà già possibile compiere alcune valutazioni politiche. Gli occhi degli osservatori, dei candidati, dei militanti, si concentreranno su alcuni dati.
Il primo è su chi avrà tratto vantaggio dal voto disgiunto, cioè dalla possibilità di votare un candidato sindaco e un partito che fa parte di un’altra coalizione. È una facoltà che gli elettori hanno sempre mostrato di usare. La novità di questa campagna elettorale è che una candidata, Gloria Lisi, ha lanciato un esplicito appello: votate pure il vostro partito preferito ma come sindaco scegliete me. Di solito il voto disgiunto si pratica e non si dichiara, è evidente che Lisi punta a intercettare quanti, soprattutto a destra, non sono convinti del candidato ufficiale.
La sera del 4 ottobre quindi si osserverà quanti voti ha preso un candidato sindaco e quanti la sua coalizione. Se i voti delle liste di partito saranno superiori a quelli del candidato sindaco significa che quel candidato non solo non è stato capace di attrarre nuovi voti ma nemmeno di conservare quelli della propria area politica, e ciò potrebbe avere una qualche influenza anche nel ballottaggio.
Il secondo dato saranno i voti dei partiti e le proiezioni sulla formazione del consiglio comunale nel caso vinca l’uno o l’altro dei due candidati giunti al ballottaggio.
Per il voto ai partiti, nel centrodestra l’occhio andrà subito a chi fra Lega e Fratelli d’Italia avrà vinto la battaglia per essere il primo partito. Non è questione di poco conto: dovessero vincerla i meloniani, per la Lega, che ha espresso il candidato sindaco, sarebbe uno smacco bruciante. Nel centrodestra certamente si guarderà anche a quanti voti racimolerà la lista di Lucio Paesani, che ha condizionato non poco sia il tono sia i contenuti della campagna elettorale di Ceccarelli. Nel centrosinistra sarà interessante vedere se il Pd conserverà una quota di consensi oltre il 30per cento e quale sarà il risultato della Lista Jamil, per la quale il sindaco Andrea Gnassi ha speso totalmente la propria immagine.
Fra le liste che sostengono Gloria Lisi l’attenzione sarà puntata ai 5 Stelle che si ripresentano dopo essere stati fermi un giro: sarà una verifica su quanto vale in termini elettorali a Rimini il partito di Grillo. La legge prevede che una lista non in coalizione con altre possa esprimere un consigliere solo se supera il 3 per cento: è un traguardo al quale punta Rinascita civica di Mario Erbetta.
Il 3 e 4 ottobre si eleggono 20 consiglieri di maggioranza e 12 di opposizione. A molti sarà capitato di incrociare un candidato consigliere che chiede il voto perché “così sarò eletto”. Ma quanti voti di lista occorrono per eleggere un consigliere comunale? Beh, tutto dipende se la lista finirà in maggioranza o sarà relegata all’opposizione. Questo lo sapremo solo la sera in cui sarà proclamato il nuovo sindaco. Per capire gli ordini di grandezza possiamo guardare ai risultati del 2016. Con l’avvertenza che l’affluenza alle urne era stata piuttosto bassa (57 per cento) perché si votava solo la domenica, mentre quest’anno si vota anche il lunedì mattina e quindi è lecito aspettarsi un incremento di partecipazione. A Rimini Futura, che faceva parte della vincente coalizione Gnassi, sono bastati 1.500 voti per eleggere il consigliere. A Uniti si vince, lista che raccoglieva la diaspora della destra, ne sono invece stati necessari 2.200, cioè il 46 per cento in più: sosteneva il candidato del centrodestra e quindi è finita all’opposizione.
Dopo aver capito chi va al ballottaggio, dopo aver valutato le perfomance dei partiti, la sera del 4 ottobre si andrà a vedere chi sono i probabili eletti in consiglio comunale. Nei giorni di vigilia, la domanda che arrovella i candidati e i loro sostenitori riguarda quanti voti di preferenza siano necessari per avere al certezza di essere eletti. Difficile dirlo, anche perché guardando alle elezioni del 2016 si vede che la situazione cambia da partito a partito. Nella Lega, per esempio, l’ultimo degli eletti su quattro, era entrato con appena 94 voti. Situazione del tutto diversa nel Pd dove l’ultimo degli eletti, su tredici, è entrato con 279 voti. Nella Lega cinque anni fa il voto di preferenza è stato scarsamente praticato anche perché il partito aveva preso voti prevalentemente in forza del simbolo e non di una presenza sul territorio. Al contrario nel Pd c’era stato un ampio uso delle preferenze.
Dal 5 ottobre si comincerà a pensare al ballottaggio. Le dichiarazioni solenni della vigilia escludono un apparentamento fra centrosinistra e coalizione Lisi. Quindi nessun candidato potrà contare su un appoggio aggiuntivo. Il ballottaggio si presenta come una nuova elezione che quasi nulla ha a che fare con il voto di due settimane prima. È sbagliato pensare che chi è arrivato in testa al primo turno, certamente parta favorito. Non vale il discorso: Tizio ha ottenuto il 49 per cento, gli basta una manciata di voti per vincere. Sarà avvantaggiato chi riuscirà a convincere il maggior numero dei propri elettori a tornare alle urne per completare l’opera. A sinistra si dirà: tornate tutti a votare altrimenti vincono le destre. A destra si dirà: tornate tutti a votare altrimenti non si realizza il sogno del cambiamento. Vincerà chi, oltre a conservare il maggior numero di elettori fedeli, riuscirà anche ad attrarre il maggior numero di voti fra gli elettori che al primo turno hanno scelto un altro candidato.