Giornalista e scrittore di Riccione: perchè ho scelto di vivere nelle baraccopoli di Buenos Aires
Un riccionese nella villa La Carcova di Buenos Aires. Le villas sono baraccopoli simili alle più note favelas brasiliane. Ma Alver Metalli, 62 anni, non è un volontario di qualche ONG o un infermiere, o un medico, o un assistente sociale. È giornalista e scrittore, ha al suo attivo alcuni saggi (l’ultimo, Il Papa e il Filosofo, è stato presentato la scorsa estate al Meeting) e ben otto pregevoli romanzi. Da qualche tempo gestisce un proprio sito www.terredamerica.com attraverso il quale informa sulla vita della Chiesa e sulla realtà sociale dell’America Latina. È una delle firme di punta del sito Vatican Insider, che informa sull’attualità ecclesiale. In America Latina le prime volte ci è arrivato da inviato speciale per un giornale, poi è diventata la sua seconda patria, girovagando fra Argentina, Messico e Uruguay. Adesso è stabilmente residente a Buenos Aires e da qualche mese vive nella villa dove è parroco padre Josè Maria di Paola, meglio conosciuto come padre Pepe, l’amico fraterno del cardinale Josè Maria Bergoglio, oggi papa Francesco. Nel 2013 padre Pepe è stato uno degli ospiti del Meeting di Rimini dove ha tratteggiato la figura di papa Francesco. Del suo arcivescovo, oggi sul soglio di Pietro, padre Pepe ha detto: «Mai ho sperimentato una compagnia così forte e decisa come quella del nostro vescovo. È sempre stato vicino al nostro gruppo di sacerdoti con semplicità, accompagnando le nostre iniziative, visitando i quartieri e condividendo la realtà della gente del posto senza impartire lezioni, solo per incontrare».
Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
«Quello di fare la Chiesa - così come io l'ho conosciuta nella mia storia personale - in un contesto di marginalità è sempre stata “una provocazione” a cui sono stato sensibile. Il richiamo del Papa in questo senso, l’amicizia con padre Pepe di Paola, che nelle villas c'è da molti anni, hanno permesso questo mio inserimento e collaborazione con lui e la presenza che realizza».
I lettori perdoneranno un ricordo personale. Ho conosciuto Alver Metalli a metà degli anni Settanta, quando ero uno studente di liceo. Con l’amico Ciro Picciano ci fece vedere un filmato sulla vita nei territori già liberati delle ex colonie portoghesi in Africa. Erano i tempi in cui ancora forti erano le suggestioni terzomondiste e da parte dei cristiani si andava alla ricerca, anche con molte ingenuità (con gli occhi di oggi) dei tentativi di liberazione messi in atto dai movimenti popolari. Dopo più di quarant’anni quell’interesse, quella “provocazione” ha prodotto un frutto maturo che sorprende e desta il desiderio di capire meglio, anche perché sembra avere tutti i connotati di un impeto che finalmente trova la sua compiuta realizzazione. Come dice Metalli: “Fare la Chiesa in un contesto di marginalità è una “provocazione” a cui sono sempre stato sensibile”. Inter-Vista aveva già interpellato Alver Metalli all'indomani dell'elezione di Bergoglio, fornendoci un ritratto del pontefice frutto di una conoscenza reale.
Che tipo di villa è quella in cui sei inserito?
«E' una baraccopoli della cintura di Buenos Aires. Si è formata nelle vicinanze di una stazione ferroviaria che si chiama Leon Suarez. Negli anni '40 la ferrovia si è spinta sin lì e attorno all'ultima fermata, al di fuori del perimetro urbano di Buenos Aires, si sono stabiliti anche i primi nuclei di residenti. Poi l'area si è gonfiata di immigranti con ondate successive di argentini che venivano a cercare lavoro da altre provincie povere (Corrientes, Santiago del Estero, Chaco) o semplicemente si spostavano verso la capitale per cercare una vita migliore in quella situazione. A loro si sono aggiunti negli ultimi anni molti paraguayani e una minoranza di boliviani e peruviani. Nel 2001, con il tracollo dell'economia argentina, c'è stata un’altra forte ondata migratoria dalle campagne e Buenos Aires in questo senso è come un aspiratore. Oggi l'area chiamiamola marginale di Leon Suarez conta oltre 30 mila persone, in buona parte concentrate nella villa La Carcova dove vivo da un po' di tempo».
Di cosa vive la gente?
«La villa, nelle speranze di chi la occupa, dovrebbe essere un posto transitorio, in attesa di trovare lavoro e potersi trasferire altrove dove ci sono migliori servizi. In realtà, tranne che per pochi, finisce per essere un insediamento definitivo. Molti vivono riciclando immondizia; c'è un deposito enorme ai margini della villa dove si raccolgono i rifiuti della capitale, e tutto quello che si può recuperare o riciclare viene setacciato da centinaia di ragazzi e uomini della villa; altri sono cartoneros, altri ancora trovano lavoro, generalmente precario, nel settore della costruzione, come manovalanza senza specializzazione; c'è poi un piccolo commercio interno e tante altre cose, lecite e illecite dettate dalla necessità di sopravvivere».
Quali sono i problemi della villa?
«Tanti, quelli di una situazione di marginalità dove la scolarizzazione è precaria, l'assistenza medica altrettanto, ma su tutti in questo momento il più devastante dei problemi è la droga. E' una realtà in forte espansione, che coinvolge, come spacciatori o consumatori una gran quantità di ragazzi; impressiona vedere o venire a sapere che ce ne sono anche di 12, 11 anni. Droga vuol dire violenza per spacciarla e conseguirla, vuol dire degrado umano, vuol dire dissoluzione dei rapporti, vuol dire morte per tanti. Il lavoro di padre Pepe di Paola da questo punto di vista è straordinario. Ha ben chiaro che per tirare fuori una persona da questo buco nero, da questa china autodistruttiva, ci vuole una ragione per vivere, educazione e lavoro. E dissemina la villa di centri e cappelle che in poco tempo diventano dei punti di coagulo che ricreano un tessuto umano nuovo».
Come ti hanno accolto i nuovi vicini di casa?
«Con molta pazienza. La gente guarda con simpatia il mio sforzo di raggiungere quella che per loro é la normalità. Per il resto molta violenza, molta miseria e anche molto squallore assieme allo spettacolo di vedere che quando la fede é proposta, alimentata e approfondita rigenera l'umanità e il modo di trattare i propri bisogni e quelli degli altri».
Nella tua scelta ha influito il pontificato di Francesco?
«Si. Come ho già detto quel suo continuo additare la povertà come un luogo privilegiato per la missione cristiana ha toccato una corda che già era in tensione. E devo dire che sono il primo a ringraziare la gente con cui sto vivendo e padre Pepe che mi ha accolto perché è appassionante vedere come da una massa di gente disgregata alle prese con problemi di sopravvivenza si formi poco a poco un popolo che guarda con altri occhi al futuro, e capisce che può costruirne uno diverso e migliore. La speranza e l'esempio fanno miracoli».
Valerio Lessi